La testimonianza dell’ex boss di Miano Carlo Lo Russo, oggi collaboratore di giustizia, è stata determinante per ricostruire le dinamiche che hanno portato all’omicidio di Gennaro Cesarano, il 17enne ucciso nell’ambito di una “stesa” avvenuta la notte fra il 5 e il 6 settembre 2015 in piazza Sanità.
Quattro le persone raggiunte da ordinanza di custodia cautelare: Antonio Buono, 37 anni, Ciro Perfetto, 21, Mariano Torre, 29 e Luigi Cutarelli, 22, tutti affiliati al clan Lo Russo e, scrive il gip Francesca Ferri, «killer professionisti». Anche Vincenzo Di Napoli, 25 anni, sarebbe stato raggiunto dallo stesso provvedimento, se non fosse rimasto a sua volta vittima di un agguato il 9 dicembre 2015.
Tutto ha inizio la sera del 5 settembre 2015, una scorribande armata, legata al boss Pierino Esposito, inscena una stesa nelle strade di Miano, storica roccaforte del clan Lo Russo. Sono le tre del mattino quando Carlo Lo Russo viene svegliato da Perfetto e Torre. «Mi avvisarono che Pierino Esposito era venuto con il suo gruppo a Miano a fare una stesa e a minacciarmi». Così il boss autorizza la rappresaglia: «Dissi di andare alla Sanità, cercare Pierino e i suoi ragazzi e ucciderli».
Da Miano partirono otto persone in sella a 4 scooter. In piazza della Sanità, cominciano a sparare con almeno tre pistole all’indirizzo di un gruppo di ragazzi lì radunati: 24 colpi, 12 ad altezza d’uomo.
«La furia dei killer – scrive il giudice – si dirige verso il gruppo sbagliato. A morire non è uno degli uomini di Esposito, ma un giovane di 17 anni»: Gennaro Cesarano, che paga per «l’affronto» di Pierino Esposito «senza sapere, mentre era bersaglio degli assassini, perché a 17 anni lo stessero punendo». Dopo l’agguato, riferisce Carlo Lo Russo, Perfetto e Cutarelli tornarono a casa del boss: «Sono venuti tutti euforici e hanno raccontato di aver sparato a un gruppo di ragazzi nella piazza. Luigi Cutarelli – ha descritto la scena come se avesse sparato lui. Ha fatto la mossa mimando gli spari come se stesse sul lato del passeggero del motorino». Il giorno dopo, Lo Russo capì che avevano sbagliato bersaglio. «Ne parlai con Ciro e Luigi, raccomandai loro di non farne parola con nessuno. Silenzio assoluto».
Quando apprese dai media della morte di Genny Cesarano, il boss capì subito che i suoi killer «avevano fatto un guaio. Un ragazzo di 17 anni non poteva far parte del clan».
Quando il gruppo di fuoco spara all’impazzata, Genny è in piazza assieme a un gruppo di amici che si salvano per miracolo. Nel quartiere la morte del 17enne suscita indignazione unanime. Ma le indagini, rilevano i magistrati, vengono accompagnate da una «omertà che avrebbe irrimediabilmente impedito di identificare i responsabili» senza il pentimento di Lo Russo. «Eppure non chiediamo gesti di eroismo, ma atti di ordinari legalità», sottolinea Colangelo.
Il questore Guido Marino annuisce. Davanti agli investigatori, invece solo dichiarazioni vaghe. Anzi, il padre di uno dei ragazzi, per giunta poliziotto in pensione, consiglia ai testi, rileva il gip, «di assumere comportamenti omertosi». Nelle intercettazioni però dicono che il raid era stato sferrato da «quelli di Miano». Lo conferma ai pm anche Carlo Lo Russo: «Lo sapeva tutta Napoli, tutta la malavita, che eravamo stati noi a sparare».