Lea Vergine, napoletana purosangue, classe 1938, ha scritto per numerose testate tra cui “Paese Sera”, “Manifesto”, “Corriere della sera”, “Domus”, “Panorama”, ha collaborato con la Rai, ed è autrice di numerose pubblicazioni per Rizzoli, Garzanti, Feltrinelli, Skira, Il Saggiatore, Archinto, Arcana, Charta, Gli Ori.
Le sue opere non sono apprezzate solo per la sua attenzione alle pratiche femminili e femministe, ma per l’analisi metodologica delle stesse. Vergine è sempre stata attenta alle espressioni e alle pratiche artistiche anche più eccentriche, o più lontane dal mainstream curatoriale, con una capacità di comprensione delle arti nel loro articolarsi reciproco.
Cosa c’è di più misterioso del fatto che una persona possa, di fronte a un quadro di segni astratti, sentire un’emozione quasi dolorosa?”
Questo il giudizio sull’arte Lea Vergine, critico d’arte tra i più autorevoli degli ultimi cinquant’anni: una magia, o meglio, una malattia sublime nella quale non è possibile cercar conforto perché “ci dilanierà, travolgendoci e disorganizzandoci”. E nel libro di recente pubblicazione intitolato L’arte non è faccenda di persone perbene (Rizzoli, 2016), questa signora italiana dell’arte racconta proprio questa sua vita controcorrente, fatta di incontri straordinari, grandi amori, battaglie e utopie, in conversazione con Chiara Gatti. Lunedì 23 gennaio ore 18:00 (Biblioteca, primo piano) il volume sarà presentato al museo MADRE di Napoli dall’autrice, in conversazione con da Ena Marchi editor della casa editrice Adelphi, la scrittrice Giovanna Mozzillo e il direttore del museo MADRE, Andrea Viliani. Una vivace autobiografia, in cui Lea Vergine si racconta con il piglio di straordinaria intellettuale e le fragilità di una donna che non ha mai messo a parte la vita.
Dall’infanzia napoletana (“Non si è nati invano alle falde del Vulcano” scrive), divisa tra due famiglie, al rapporto esclusivo con un padre andato via troppo presto e poi la vita adulta, la scelta di un mestiere anticonformista, gli anni romani, le gallerie, le avanguardie e la politica, l’amicizia con Cioran e Manganelli, la grande “famiglia del Manifesto”. Fino all’approdo a Milano, tra i protagonisti della grande stagione degli anni Sessanta (Gillo Dorfles, Arturo Schwarz, Silvana Ottieri, Camilla Cederna e molti altri). Un racconto senza cedimenti, né verso i mostri sacri dell’arte né verso se stessa: “Senza alterigia, non ho però mai finto modestia: chi affronta qualcosa di enigmatico come l’arte non può permettersi di essere modesto. Ma neanche può permettersi di non essere umile”.
Così l’arte diventa una scuola di rigore, quindi, ma anche una malattia sublime, “un’ombra dell’amore”. Nelle pieghe di questo libro-intervista c’è sempre il tentativo di dare un peso a ciò che è per principio ineffabile: l’arte, l’amore, la vita stessa. Tentativi che hanno bisogno di braccia forti e sono forse destinati a fallire. Soprattutto se ci si illude rispetto alla funzione rassicurante dell’arte, perché “l’arte non è faccenda di persone perbene. È inutile che lo spettatore cerchi nella visione di un’opera d’arte qualcosa che lo consoli. Troverà solo qualcosa che lo dilanierà. Starà a lui decidere