Niko Pandetta è un cantante neomelodico siciliano, diventato celebre grazie ad alcuni testi dedicati ai detenuti, soprattutto a quelli al 41 bis.
Una carriera che nasce in salita per Niko che all’età di 20 anni viene arrestato per rapina e spaccio di stupefacenti. Quattro anni dopo, mentre era sottoposto agli arresti domiciliari si fa pizzicare dalle forze dell’ordine, mentre, grazie al supporto di due complici, era intento spacciare droga: Pandetta si affacciava dal balcone dell’appartamento al primo piano in via Plebiscito a Catania, dove stava scontando la pena e lanciava ai due compari degli involucri contenenti la droga da smerciare; questi ultimi provvedevano a venderla ai clienti in transito. Oggi, Niko Pandetta ha 25 anni ed è una delle star neomelodiche più acclamate del sud-Italia. Il cantante, solitamente, inizia i suoi video rivolgendosi agli “ospiti dello Stato” e anche a chi “purtroppo sta al 41-bis.” “L’ispiratore” dei suoi versi è zio Turi, alias Salvatore Cappello, un boss attualmente condannato al carcere a vita.
La storia criminale di Cappello, figlio di fiorai, comincia con un colpo messo a segno da giovanissimo, quando strappa un crocefisso d’oro dal collo dall’arcivescovo di Trapani, dopo aver simulato di essere stato investito dall’auto sulla quale viaggiava il prelato. Tanto gli bastò per imporsi come un giovane “capace” agli occhi dei boss catanesi.
Cappello è l’erede di Salvatore Pillera, detto Turi Cachiti, personaggio storico della mafia catanese che in seguito alla detenzione lasciò in mano le redini della cosca proprio al giovane boss rampante.
Nel 1988 il giovane boss venne tratto in arresto in compagnia ad altri personaggi di spicco della mafia locale, ma alla prima occasione utile si diede alla latitanza. Fu responsabile di una sanguinosa faida. Tale guerra vide trionfare il boss Cappello, ma i rivali, in seguito all’arresto di Turi, usarono una vendetta trasversale uccidendo il fratello di quest’ultimo, Santo Cappello totalmente estraneo alla malavita catanese.
In carcere, Turi Cappello sancisce un’alleanza tra la mafia catanese e la ‘ndrangheta di Franco Coco Trovato, uno dei capi più potenti delle cosche calabresi.
Cappello, all’età di 35 anni, viene arrestato a Napoli l’8 febbraio del 1992, dove si trovava per incontrare don Carmine Alfieri, detto anche “o’ ntufato” (l’arrabbiato), boss di Piazzolla di Nola, capo indiscusso della Nuova Famiglia, il sodalizio criminale insorto per osteggiare la Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo. Latitante da tre anni, fu bloccato alla guida di una Citroen ZX a San Giovanni a Teduccio, alla periferia di Napoli. In auto, al suo fianco, c’era la sua donna, quella che secondo le cronache di allora, aveva conosciuto su un autobus durante una delle trasferte napoletane.
Nella città partenopea, Cappello doveva trattare grossi affari, forse l’acquisto di partite di armi come il carico di mitra Uzi spedite proprio da Alfieri in Sicilia e bloccato dai carabinieri agli imbarcaderi di Villa San Giovanni.
Di Maria Rosaria Campagna, la donna del boss, si torna a parlare tredici anni più tardi, nel luglio del 2005. La Campagna fu bloccata dai poliziotti della Mobile di Catania, appena sbarcata nel capoluogo etneo dal traghetto proveniente da Napoli. Per gli investigatori la donna teneva vivi i rapporti tra il capomafia al 41 bis nel carcere di Viterbo e gli esponenti della cosca.
Proprio qualche giorno fa, Maria Rosaria Campagna, la moglie di zio Turi, è stata arrestata nell’ambito dell’operazione “Penelope” che ha decapitato la cosca Cappello-Bonaccorsi. La donna, ancora una volta, è risulta essere l’anello di congiunzione tra il boss Turi Cappello, il suo storico compagno da oltre 20 anni al 41 bis, e i vertici operativi a Catania. Dalla sua cella, “zio Turi”, continuava a ricoprire il ruolo di capo indiscusso della cosca grazie all’ausilio fedele compagna.
Secondo gli investigatori della squadra mobile di Catania, era la donna del boss che da Napoli, dove è titolare di una pizzeria, in via Alessandro Volta, a due passi da San Giovanni a Teduccio, dettava di persona gli ordini del suo uomo ai referenti catanesi della famiglia.
In passato, gli investigatori avevano scoperto che Cappello mandava ordini ai suoi affiliati attraverso fotomontaggi realizzati al computer. Il metodo usato dal boss era emerso nel corso delle indagini su un traffico di cocaina gestito da mafia e ‘ndrangheta. Gli inquirenti ricostruirono il sistema di comunicazione utilizzato da Cappello per dettare le strategie del clan, per far sapere ai suoi picciotti quali fossero le attuali alleanze, ma anche per comunicare le nomine ai vertici del clan. Realizzava i suoi fotomontaggi con un computer e una stampante di cui poteva disporre in carcere.
Era poi la sua compagna che li faceva pervenire all’esterno come cartoline augurali o corrispondenza ordinaria. Le immagini superavano i controlli carcerari perché apparivano come semplici scherzi a chi non conoscesse il codice per interpretarle. Tra i fotomontaggi acquisiti dagli investigatori, uno in cui Cappello ha manipolato una foto di gruppo del team della Ferrari, sovrapponendo la sua faccia a quella del pilota Michael Schumacher, e incollando i volti di due boss suoi alleati, Giuseppe Garozzo e Ignazio Bonaccorsi, entrambi detenuti.
Zio Turi è una delle figure di maggiore rilievo della mafia catanese. Portano la firma di zio Turi molti dei centocinquanta omicidi della guerra di mafia che ha insanguinato Catania tra l’86 e i primi anni Novanta. Tra le sue gesta più spietate, l’uccisione dei due ladri che gli avevano rubato la macchina a Torino e il raid nell’agosto del ’90 in una macelleria del quartiere di Canalicchio.
Un’ascesa inarrestabile che ha permesso a Cappello di guidare uno dei clan più agguerriti della storia della mafia siciliana. Una posizione di potere che, sulla base delle indagini, non si è esaurita neanche dopo oltre 20 anni di carcere duro.
Un’egemonia impostata con le armi e mantenuta anche negli anni di detenzione anche grazie a Maria Rosaria Campagna, la fedele compagna che ha continuato a esercitare il potere del boss guidando la cosca e curandone gli affari milionari, assicurandosi, così, uno stipendio di 10.000 euro al mese. Questa la busta paga del capomafia Salvatore Cappello, condannato in via definitiva all’ergastolo e detenuto a Napoli, ma pur sempre il capo indiscusso della sua cosca.
Non è stato adottato alcun provvedimento cautelare a suo carico in quanto il boss Cappello è detenuto in espiazione di condanne definitive all’ergastolo.
A Maria Rosaria Campagna è stata sequestrata preventivamente la totalità dei beni aziendali e strumentali dell’impresa individuale Pizzeria e Bar “I due Vulcani”, con sede invia Alessandro Volta n.3 a Napoli.
E poi c’è, per l’appunto, il tributo/supporto canoro di Niko Pandetta: i suoi video collezionano migliaia di condivisione, i suoi fan si moltiplicano di giorno in giorno. Ai suoi fan più affezionati non sfuggono i vari punti di contatto con Napoli: Niko canta in napoletano e molto spesso duetta con figure di spicco della scena neomelodica partenopea.
Il video in cui, seduto sul divano, interpreta un brano “contro i pentiti”, in compagnia di Anthony, un altro big della figura neomelodica, ha collezionato una pioggia di condivisioni.
Il suo primo disco, intitolato “E’ guagliuncelle” l’ha inciso ad appena 12 anni, prodotto e distribuito dalla G.S. di Catania; allora si chiamava il Piccolo Anthony. Alcuni suoi brani sono diventati dei cult fungendo da colonna sonora di Gomorra. Tuttavia, al centro dell’attenzione, lo scorso maggio ci è finita “a libertà”: la canzone di Anthony che secondo quanto diffuso dagli investigatori attraverso le agenzie di stampa, sarebbe stata scritta dal boss della Vinella Grassi, Umberto Accurso durante la latitanza e dedicata al figlio. Interpellato dal quotidiano “Repubblica”, Anthony respinse tutte le accuse: “Ho scritto io questa canzone insieme a Gianluigi, il collega che canta con me. Non so come possa essere nata questa storia. Umberto Accurso non lo conosco proprio, forse posso aver lavorato con i suoi familiari. Non ho mai avuto alcun rapporto con la malavita. Può capitare che io possa cantare per persone che fanno certe cose, ma faccio sempre e solo il mio lavoro di artista.”
Anche Gianni Vezzosi è uno dei “big” che appare spesso in compagnia di Pandetta: il suo brano “o killer” fu già oggetto di studi ed attenzioni da parte di Roberto Saviano.
Su Niko Pandetta, tra le mura dei rioni-simbolo della malavita ponticellese, circolano suggestive leggende che, di giorno in giorno, si fanno sempre più incalzanti: la sua ugola sarebbe al servizio di un boss del quartiere, anch’egli detenuto in regime di 41 bis e, proprio come molti altri vecchi capi in quella condizione, si servirebbe dei testi del cantante per “mantenere viva” la propria fama tra le reclute del clan. E che, tra l’altro, il boss in questione, avrebbe pianificato una serenata in pompa magna, tra le mura del rione-roccaforte del suo clan, commissionata proprio al cantante catanese. Un piano ambizioso, volto a preannunciare il ritorno in scena del clan in grande stile, stroncato dalla prorompente ascesa dei Mazzarella, capaci di prendere il sopravvento su tutto e tutti e di stravolgere tutti i piani camorristici, incluso questo. Questa la versione dei fatti fornita da chi bazzica negli ambienti malavitosi di Ponticelli. Molto di più di un semplice rumors: la delusione delle giovani reclute della malavita che attendevano con ansia il lieto evento è palpabile e diffusa.
Per chiarire la situazione ho chiesto al diretto interessato delucidazioni in merito: Niko Pandetta accetta l’intervista, ma, una volta ricevute le domande, replica che non vuole parlare della malavita.
Poche ore dopo, sul suo profilo facebook, pubblica uno screenshot del messaggio contenente le domande che gli avevo rivolto, introdotto da una frase esplicita: “vorrei capire sei una giornalista? O con l’Antimafia??”
Tanto basta per innescare la reazione dei suoi follower: “cornuta e sbirra”, il commento più quotato.
“Niko sei grande, sono invidiosi di te”, “stai attento leone non ti fidare che sono tutti sbirri”, “antimafiosa giornalista”, “gli manca solo la divisa, altro che giornalista”, “questa non ne capisce di canzone”, “sbirri siti sulu cani! Va capputtamuu!!”, “famm’ nu b*****n! Viva la mafia!”, “ti manca il distintivo… infamona di m***a… mi fai schifo, te e le tue parole di m****”, “una persona del sud queste domande non le fa. Se le fa, fa sempre parte degli sbirri” la firma è “mamma di Vezzosi”.