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“Diario di una giornalista di strada”: quei bambini, figli della povertà

Luciana Esposito di Luciana Esposito
20 Novembre, 2016
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“Diario di una giornalista di strada”: quei bambini, figli della povertà
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img062-page-001Cosa significa essere un bambino condannato dalla nascita a vivere tra le rovine del degrado e gli stenti della povertà?

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A rispondere a questa domanda sono quei bambini, rappresentanti incolpevoli della suddetta categoria, ai quali per interminabili pomeriggi, fino a quando mi è stato reso possibile, ho chiesto di raccontare il mondo che si portano dentro, servendosi del linguaggio a loro più consono: i disegni.

La mia esperienza nel parco Merola di Ponticelli era ricca e arricchita soprattutto dal tempo che ho dedicato a loro.

Non avevo un tavolo né sedie, all’interno del parco non ci sono panchine. Così, trascorrevamo i nostri pomeriggi seduti sulle scale dei palazzi a colorare sogni.

I pastelli che ci aveva donato Gianpaolo Imbriani, raffiguranti l’effigie di “Imbriani non mollare”, una caterva di fogli e la mia infinita voglia di veder sorridere quei bambini: queste “le armi” di cui ero munita per cercare di disegnare un futuro diverso nel destino di quelle piccole ed incolpevoli vite.

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Erano felicissimi ed ipermotivati dall’idea che i loro disegni finissero sul mio giornale: qualcuno si lamentava del fatto che mentre aspettava il suo turno nel salone del barbiere, aveva sfogliato tutte le riviste presenti, ma non aveva trovato i loro disegni. Altri, invece, aspettavano il papà di ritorno da una massacrante giornata di lavoro per mostrargli con orgoglio i disegni pubblicati sul giornale. Dopodiché, chiedevano ai papà di aiutarli per elaborare un disegno ancora più bello.

Tra loro, si fece ben presto spazio un talento “diverso” che ben risponde alla domanda di cui sopra.

Luciano era il primo di tre figli messi al mondo da una ragazza giovanissima che viveva con la madre. Il marito disoccupato, l’impossibilità di provvedere al sostentamento del nucleo familiare in maniera autonoma: una scelta forzata e imposta dalla povertà.

Quella che si definisce una famiglia numerosa e allargata che viveva tra le mura ammuffite di un appartamento fatiscente. La puzza di muffa era intollerabile. Eppure, in questo contesto è abituato a vivere Luciano.

Si definiva “un bambino cattivo”, perché non poteva cedere subito al fascino dei colori, doveva sembrare che si prestasse per farmi un favore, quindi, tutte le volte, dovevamo inscenare una recita dal copione ben definito: lui fingeva di non aver voglia di colorare, io fingevo di “convincerlo” a fare almeno un disegno. Lui sbuffava e mi chiedeva un foglio e una matita, poi diceva: “lo faccio solo per non sentirti nelle orecchie”, ovvero, “per non subire i rimproveri”, ma poi non smetteva più di colorare.

Il mondo che viveva dentro Luciano era incredibile e più lo scalfita su quei fogli e più ne rimanevo rapita e affascinata.

Molto spesso accadeva che mi prendeva per mano, per portarmi lontano dagli occhi degli altri bambini – sempre per non svilire la sua fama di “bambino cattivo” – o aspettava che nessuno ci vedesse, per consegnarmi i disegni che aveva colorato a casa. Solo per me.

Non era l’unico a chiedermi di non mostrare i suoi disegni agli altri, quasi consapevole della rarità della sensibilità che vi era raffigurata e che voleva proteggere dagli sfottò dei compagni di giochi.

Durante l’estate del 2015, Luciano non si è mai mosso dal parco, le condizioni economiche in cui versa la sua famiglia rendono impossibile ipotizzare di permettersi una vacanza al mare.

Quando tornai dalle mie vacanze, Luciano mi ha punito con lo sguardo per essere stata lontana da loro per tutto quel tempo e mi consegnò dei disegni.

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Amavo tanto ascoltarlo mentre mi raccontava quello che aveva disegnato: “Questa è la mia vacanza. Siamo andati in img060-page-001un posto in cui c’era un campo di calcio bellissimo e abbiamo fatto tante partite. img061-page-001Abbiamo visitato le piramidi e abbiamo fatto il bagno in un mare azzurrissimo. Questi siamo io e te. Poi c’era un’isola con un albero, questo era il mio nascondiglio quando non ti volevo sentire nelle orecchie.”

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Nei disegni di Luciano, il sole non mancava mai.

Qualche settimana dopo, mi consegnò un altro disegno e, allo stesso modo, ho voluto che fosse lui a raccontarlo: “è una rapina. Io sono quello che sta al centro. Quella che sta accanto alla porta sei tu e quello più grande è il rapinatore con la pistola. E io non so da chi andare.”

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Anche in quel disegno, Luciano ha scalfito il sole, insieme all’inconsapevolezza di aver già scelto da chi andare: la porta era alle mie spalle.

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