Proprio mentre su Italia1, nel corso del programma “Le Iene” andava in onda un servizio che proponeva uno stralcio di una vecchia intervista a Umberto Veronesi, è stata data notizia della morte del celeberrimo oncologo.
Veronesi aveva 90 anni, ha trascorso la vita a combattere il cancro con impegno e due parole d’ordine: ricerca e laicità.
L’eutanasia, la cultura scientifica, l’alimentazione vegetariana: queste le altre battaglie promosse dal luminare.
Umberto Veronesi, oncologo e uomo politico, è morto nella sua casa di Milano all’età di 90 anni. Da alcune settimane le sue condizioni di salute si erano progressivamente aggravate. Era circondato dai familiari, dalla moglie e dai figli. Nato e cresciuto nella periferia delle case popolari, in una cascina nel Pavese. Veronesi guardava da lontano alla città che avrebbe, poi, per molti versi dominato e fatto diventare capitale della ricerca biomedica italiana, ma non solo. Perché non c’è dubbio che, tra le mille eredità di Veronesi, la più solida è quella di aver traghettato la medicina italiana nella modernità. A partire dalla guerra al grande male, l’oncologia. Le altre battaglie – quella per l’eutanasia, per la cultura scientifica, per l’alimentazione vegetariana – discendono dalla sua visione del mondo, laica ed empirista, ma soprattutto dalla sua lunga frequentazione col cancro.
Veronesi era un chirurgo, e l’oncologia italiana nasce con lo sguardo limpido di chi è abituato a vedere ed estirpare. E’ l’unica branca della nostra medicina che nasce “all’americana” grazie a lui, a Pietro Bucalossi e Gianni Bonadonna). Nasce e cresce attorno all’Istituto dei tumori di Milano, il vero tempio, da cui poi sono partiti i suoi allievi per diffondere il metodo in tutta Italia. Nasce col grande salto delle sperimentazioni degli anni Settanta del secolo scorso. A chi si chiede oggi perché mai gli americani vennero qui a sperimentare la cosiddetta terapia adiuvante per il carcinoma della mammella (la procedura di dare farmaci dopo l’intervento che ha salvato milioni di donne nel mondo) portando i loro dollari a Milano, gli storici danno una sola risposta plausibile: perché negli Usa i chirurghi non volevano farlo, non volevano condividere le pazienti coi chemioterapisti e tantomeno trattarle con quei farmaci così pesanti. In Italia, a Milano, gli americani trovarono un oncologo che lavorava come loro (Gianni Bonadonna), e un grande chirurgo che capì per primo al mondo che il cancro si combatte in equipe. E si vince con la ricerca. Non fu solo quello a farne un uomo di ricerca, la chirurgia conservativa (“amo troppo le donne per vedere i seni straziati dall’amputazione”, diceva), il linfonodo sentinella (che permette di prevedere l’andamento della malattia e comportarsi di conseguenza) sono le sue battaglie più eclatanti. Ma a farne l’Umberto Veronesi che tutti conosciamo è stata la visione politica della malattia. Nessun altro in Italia l’ha avuta.
Politica, nel senso nobile del termine, s’intende: l’idea forte di quello che serve alla medicina per servire i cittadini. Mentre la politica, quella dei palazzi, l’ha ascoltato sempre, omaggiato molto, seguito assai poco. A partire dal disinteresse reiteirato per il messaggio più indelebile di Veronesi: ricerca, ricerca, ricerca. Fece suo lo slogan: si cura meglio dove si fa ricerca; lo trasformò in realtà all’Istituto dei tumori di Milano, prima, e allo Ieo, dopo. Ne ha fatto l’imprinting dei grandi ospedali più avanzati dei paese.
Si è battuto per la creazione degli Irrcs, istituti di ricovero e cura a carattere scientifico, ma poi ha visto con amarezza che l’idea degli ospedali di ricerca è diventata uno strumento di consenso per la politica che li ha distribuiti a pioggia senza mai verificare che fossero davvero di ricerca Si è battuto per convincere la politica che la ricerca pubblica è una priorità, perché senza sono le aziende a fare il bello e il cattivo tempo. A Big Pharma che decide cosa curare sulla base delle molecole che ha scoperto, e come curarci sulla base dei fatturati possibili. Questo non gli piaceva, e non dovrebbe piacere nemmeno a noi. Noi che oggi siamo orfani. E domani saremo disorientati. L’opinione pubblica dovrà abituarsi a pensare da sola i grandi temi della medicina, del suo futuro, della nostra battaglia con la malattia e la morte.