Café society, in uscita il 29 settembre in Italia, ci ricorda l’annuale “appuntamento” con il più prolifico tra i registi contemporanei.
Pellicola n. 46 per il cineasta newyorkese e film di apertura della 69a edizione del Festival di Cannes, si riferisce ai mondani, agli aristocratici, agli artisti e ai personaggi famosi che si riunivano nei caffè e nei ristoranti alla moda di New York, Parigi e Londra a cavallo tra il XIX° ed il XX° secolo.
Ambientato tra il Bronx, New York e Los Angeles, precisamente a Hollywood che era la mecca del cinema negli anni ’30, ci racconta il fascino legato alle star hollywoodiane, il cinismo implacabile dell’industria cinematografica e la vivacità stimolante della mondanità notturna newyorkese.
Fa spola fra queste due ultime grandi città il giovane Bobby Dorfman (Jesse Eisenberg) che non vuole seguire le orme del burbero padre e si trasferisce nella Città degli Angeli. Sotto il sole di L.A, ben inserito nella “cafè society” di intellettuali, artisti e feste stile “Il grande Gatsby”, c’è suo zio Phil (Steve Carrell) indaffarato agente delle star del tempo. Nonostante l’iniziale diffidenza, l’uomo darà al nipote sempre più incarichi lavorativi. Tutto cambia quando il timido Bobby conosce Vonnie (Kristen Stewart) segretaria di Zio Phil. I due cominciano spesso a uscire insieme ma lei lo frena quando lui esprime la volontà di far crescere il rapporto. Vonnie in realtà è fidanzata. A questo punto entra in gioco il destino.
Ridotto all’osso il racconto è un banale triangolo amoroso dove scegliere comporta sempre rinunciare a qualcosa. Tema ricorrente nella poetica alleniana ma stupisce come l’autore riesca a parlare delle stesse cose continuando a riciclare se stesso.
Un film leggero che è più sinonimo di vacuità e di assenza di tensione, in cui si impiega troppo tempo per dire qualcosa d’interessante e quando poi accade la rivelazione non avviene.
Infatti, “Sono mezzo annoiato, mezzo affascinato“, dice il personaggio di Jesse Eisenberg in merito a Hollywood, parlando al fratello gangster rimasto a New York. Simile sensazione si ha di fronte a Café Society: all’inizio è lo charme a prevalere, sprigionato soprattutto dalla suggestiva estetica vintage e dal suadente ritratto degli anni Trenta, poi è il tedio a far capolino con insistenza.
Si ride poco, manca la sagace autoironia sugli ebrei, mancano le amabili e geniali battute dei primi film, tranne che: “Vivi ogni giorno come fosse l’ultimo e un giorno ci azzeccherai”.
Allen, sceneggiatore unico, ha strutturato la narrazione come un romanzo, soffermandosi per un po’ su una scena del protagonista con la sua ragazza, poi su una scena con i suoi genitori, quindi ecco una sequenza con la sorella o il fratello, una con vip di Hollywood o sui caffè frequentati da politici, playboy e uomini che tradiscono le mogli o donne che sparano ai mariti.
Come in un libro, la storia è raccontata da una voce narrante, che Allen stesso ha assunto in prima persona nella versione originale, e che accompagna la complessa struttura del film, ben costruita, convincente per solidità e coadiuvata da un’impeccabile regia.
C’è una commovente cura formale nelle sequenze, nelle inquadrature e nelle composizioni che merita la lode. Specialmente nella contemplazione per i personaggi che il regista traduce, visivamente, con dei primi piani stordenti e molto espressivi.
Segni espressivi che servono per valori, toni, registri e significati collaudati per Allen: le donne, i sogni, la malinconia, l’illusione e il cinismo.
Le atmosfere accattivanti a tinte pastello sono opera di Vittorio Storaro, direttore della fotografia italiano vincitore di tre Oscar, per Apocalypse Now, Reds e L’ultimo imperatore. Il regista collabora con lui per la prima volta ed entrambi per la prima volta hanno girato in digitale. Storaro ha creato delle estetiche divergenti per i tre mondi rappresentati nel film. Per il Bronx la luce è desaturata, simile a quella delle serate invernali. Per Los Angeles invece spicca un forte colore dominante, di una tonalità calda e soleggiata. Quando Bobby torna a New York, l’aspetto è molto più luminoso, molto più colorato, in particolare le scene dei locali notturni. Col progredire del film, emerge più equilibrio tra gli elementi visivi delle due città opposte.
Infine, una colonna sonora meravigliosa, un jazz che si modella perfettamente ad ogni scena e comunica un diverso stato d’animo, dalla malinconia più lieve alla gioia più festaiola.
Si può concludere affermando che, come per i protagonisti resteranno i rimpianti e un languore di qualcosa d’irrisolto a livello personale, così per lo spettatore il film sembra tutto irrisolto, risultando un’idea tenua, quasi insapore.
Annunziata Ilardo