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Ecco chi è Mariano Abbagnara, il baby-boss protagonista di “Robinù”

Luciana Esposito di Luciana Esposito
8 Settembre, 2016
in News
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mariano-abbagnara-300x200La storia di Mariano Abbagnara, il baby boss, uomo di fiducia dei Fraulella, ovvero il clan D’Amico di Ponticelli, parte proprio dai cunicoli e dalle intercapedini del Rione Conocal, roccaforte dello stesso clan.

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Per capire chi è il baby boss, artefice della rivolta in corso nel carcere di Airola, divenuto celebre grazie alla sua testimonianza in “Robinù”, il film-documentario di Michele Santoro presentato in anteprima al Festival di Venezia, è necessario addentrarsi nei palazzi-bunker del clan D’Amico e scoprire in che modo, lì, cresce un bambino.

Giubbotti antiproiettile tra le scale, perché, come in ogni arsenale che si rispetti, quando meno te l’aspetti può essere necessario impugnare le armi per combattere l’ennesima battaglia di quella sanguinaria guerra senza fine, insorta nel segno della camorra e alimentata dalle sue stesse regole.

Armi nascoste tra le intercapedini delle scale dei palazzi e all’interno dei vani dell’ascensore.

Piazze di spaccio per strada: tra un palazzo e l’altro, nel bel mezzo di quello che con un po’ di impegno e senso del decoro, potrebbe perfino diventare un cortile, lì dove i bambini giocano ed è per questo che, fin dalla tenera età, la loro visione della vita e del mondo, matura attraverso i binari dell’anaffettivo cinismo.

Spacciare per vivere, delinquere: l’unica strada, percepibile e concepibile, “per mettere il piatto a tavola”, per dare una mano alla famiglia, per non lasciare le piazze scoperte quando i grandi vanno “alla villeggiatura” – vengono arrestati – ed è proprio attraverso il precoce insediamento di questo, credo tra un quaderno a righe e uno a quadretti, che il lecito diventa illecito. E viceversa.

I figli di questa generazione camorristica, soprattutto quelli cresciuti nel rione Conocal di Ponticelli, sono orfani di padri morti in agguati o detenuti in regime di 41 bis, vecchi gregari dei Sarno che non hanno voluto “girarsi” diventando collaboratori di giustizia, condannandosi, così, al carcere a vita.

Quei ragazzini, sono cresciuti per lo più adottati dalla “Passillona”, alias Annunziata D’Amico, sorella del leggendario Fraulella, prima donna ad aver ereditato le redini del clan quando quest’ultimo venne arrestato, nell’ambito del primo maxi-blitz maturato nel marzo del 2015. La Passillona è stata una figura centrale, carismatica, altamente significativa: madre adottiva di tutti i baby-gregari che altri non erano che i figli degli affiliati arrestati o uccisi per servire il clan, era lei a detenere le armi e a fornirle ai ragazzini per andare a fare le stese o quando c’era da mostrar “il ferro” – la pistola – se c’era da fare un’”imbasciata” importante per conto del clan.

Madre e boss, Annunziata era una donna autoritaria e capace di esercitare un forte ascendente sui ragazzi che facevano a gara per andare a comprarle il pane o le sigarette, lei che dal lussuoso appartamento-bunker in via del Flauto Magico non poteva muoversi, perché sapeva che quelli del clan di “Bodo” – soprannome con il quale viene indicato Marco De Micco, reggente dell’omonimo clan – potevano tirarle un brutto scherzo. Rompeva il suo esilio forzato solo per concedersi qualche perentoria cavalcata su motorini di grossa cilindrata, lungo le vie del Rione, quelle vie dai nomi fiabeschi che concorrono a conferire al contesto un clima ancor più surreale. Sgommava, impennava, correva, correva forte, la Passillona, mettendo a segno uno dei modus operandi tipici e più grotteschi del fare camorristico, mediante il quale un boss – e anche una boss – attesta, certifica ed estrinseca la sua preponderante egemonia.

Eppure, quella mattina dell’11 ottobre del 2015, ha prevalso il cuore di mamma: la Passillona è stata uccisa sul pianerottolo sotto casa, di ritorno dal carcere minorile di Caserta. È lì che è detenuto uno dei suoi quattro figli.

Due vite segnate da un unico destino, quello che si delinea nei giorni di chi sposa il credo camorristico. E la storia di Mariano Abbagnara ne è solo l’ennesima riprova.

Un giovane irretito ed affascinato dal richiamo delle pistole potenti e dei soldi facili e, ancor più dai valori impartiti ai figli della camorra: onore, servilismo, rispetto, nessuna pietà per chi tradisce, per “le spie”, per “gli infami” e per “le guardie”. Essere disposti a dare anche la vita per servire il sistema e distruggere tutto e tutti coloro che possono essere identificati come “nemici”: concetti semplici ed estremi, efficaci ad addestrare perfetti ed irrecuperabili “soldati della camorra”.

Mariano, 19 anni, detto “faccia janca” in carcere ci è finito per aver ucciso Raffaele Canfora, un ragazzo di 25 anni, personaggio che gravitava negli ambienti del gruppo della Vinella Grassi di Secondigliano, prima picchiato, poi punito con tre colpi di pistola e infine lasciato morire tra un’atroce agonia e disperate richiesta di pietà. A sparare fu proprio Mariano, 17enne all’epoca dei fatti.

Raffaele e Mariano erano amici, ma servire il clan significa soprattutto questo: non avere amici. Mariano ha ucciso Raffaele per “regolare” degli attriti tra gruppi camorristici per il controllo dello spaccio di droga nell’area est di Napoli. La sera dell’omicidio, fu lo stesso Raffaele a prelevare in auto Mariano e i suoi ‘amici-carnefici’ dal famigerato rione Conocal di Ponticelli. Da Marianella – il quartiere in cui abitava – a Ponticelli, a bordo della sua Panda, per andare inconsapevolmente incontro alla morte. Con loro si spostò a Ercolano dove fu ucciso.

I lamenti di Raffaele, mentre è in agonia, si sovrappongono alle note di una canzone. Gli spasmi, mentre affoga nel suo stesso sangue, si fanno sempre più flebili mentre qualcuno cinicamente pompa il volume dell’autoradio che spara musica techno. Fino a quando il gemito si trasforma nel sussulto dell’ultimo respiro, tragicamente percepito e registrato grazie a un telefono cellulare che è sotto intercettazione: è così che i carabinieri ascoltano la morte in diretta di Raffaele Canfora, ucciso a soli 25 anni dopo essere finito nella trappola che gli hanno teso i suoi carnefici. «Lo abbiamo schiattato…», racconterà poi Raffaele Stefanelli, il complice 26enne di Mariano, nonché mentre dell’omicidio, ad un altro pregiudicato, vantandosene e ignorando di essere intercettato. Impotenti, gli investigatori, riescono ad ascoltare tutto quella sera, perché i killer dopo aver sparato cominciano a usare in maniera forsennata il telefonino, ignari di essere spiati: e così sentono attimo dopo attimo la voce del ferito che implora inutilmente aiuto e pietà. Mentre gli assassini ascoltano musica.

Dopo avergli sparato i suoi carnefici, portano Raffaele in giro per circa un paio d’ore tra Terzigno e Ponticelli. La scoperta del cadavere in avanzato stato di decomposizione arriverà solo un mese dopo in una campagna di Maddaloni; è qui, sotto mezzo metro di terra che un cacciatore lo ritrova per un caso fortuito: un branco di cinghiali è riuscito a scavare lo strato di terreno e sta facendo scempio di parte del cranio. Anche la Panda viene ritrovata bruciata in un fondo rustico di Acerra. La camorra può tutto. Può tramutare dei giovani ragazzi in cinici cecchini e anche attribuire un valore monetario a una vita umana.

Dodicimila euro: tanto valeva la vita di quel 25enne, ucciso dai suoi stessi amici. Il prezzo di una partita di hashish ceduta nelle mani sbagliate e mai più pagata.

Stefanelli è debitore nei confronti di Raffaele di 12mila euro per una partita di hashish venduta, ma che il giovane di Ponticelli non ha mai pagato. Una cessione di droga venduta con la tecnica (sempre più frequente) del cosiddetto «passaggio di mano»: cioè ceduta da soggetto a soggetto per conto di due clan. Il 6 marzo – undici giorni prima dell’omicidio – Canfora chiama Stefanelli: «Mi devi ancora quelle “cinque” lire…», dice. È solo l’inizio di una interminabile sequenza di contatti con i quali il venditore reclama l’importo mai versato dall’acquirente. Stefanelli di giorno in giorno si giustifica, cerca scuse: «Sto ancora aspettando i soldi», «Cerco di farmeli dare domani», è la risposta. In realtà il giovane di Ponticelli ha tenuto per sé quella partita di droga anziché cederla al clan D’Amico. Il gioco delle tre carte prosegue in un crescendo di tensioni che culminano nello sbocco di rabbia di Raffaele: «Se non mi date i soldi vengo io là (a Ponticelli, ndr) a prendermeli. E a quelli là metto una corda al collo!». A questo punto Stefanelli matura l’idea di uccidere il suo creditore. E si rivolge al 17enne Mariano Abbagnara – che solo il 2 maggio del 2015 diventerà maggiorenne – che subito si propone come complice. Non solo: il ragazzino è anche colui che nel Rione Conocal di Ponticelli si procura anche la pistola calibro 7,65 e – nel luogo dell’esecuzione – trattiene Canfora mentre l’altro gli spara al petto. Mariano, nato e cresciuto nel bunker del clan D’Amico, sa bene dove reperire l’arma per uccidere Raffaele: nel vano ascensore, nascondiglio ed arsenale del clan.

È ancora Mariano – seppur minorenne – a guidare la Panda di Raffaele, traghettandolo tra Terzigno e Ponticelli, agonizzante, per più di due ore.

Non poteva guidare, secondo la legge dell’” altro” Stato e, invece, Mariano spingeva forte il piede sull’acceleratore tant’è vero che Stefanelli lo aveva redarguito più volte, intimandogli di andare piano. Correva forte, come fanno i boss per dimostrare la loro potenza, proprio come faceva la Passillona in sella a quello scooter lungo le vie del rione.

Mentre Stefanelli si reca dall’amante per costruirsi un alibi, Mariano si occupa della sepoltura, insieme ai due cognati e alla madre di Stefanelli.

Per l’omicidio di Raffaele, finiscono in manette altre tre persone, oltre a Mariano e Stefanelli, ritenuti gli esecutori materiali: la madre di quest’ultimo, Patrizia Zinco e due suoi cognati: Gaetano Amato e Gennaro De Luca. Per tutti accuse pesantissime: concorso in omicidio aggravato dalle finalità camorristiche, distruzione e soppressione di cadavere, porto abusivo di armi.

Per l’omicidio di Raffaele Canfora, Mariano è stato condannato a 16 anni in secondo grado. Invero, adesso si trova lì, nel carcere di Airola, ed è tra i grandi protagonisti della “rivolta delle sigarette” che ha portato al ferimento di due agenti.

Perché, anche da dietro le sbarre, chi vive nel rispetto di quelle regole, rileva nella divisa “il nemico” da combattere.

Ecco perché, Mariano, nel corso del film-documentario Robinù, descrive “il kalash” – il kalashnikov – come una bella donna. Quel ragazzo è cresciuto nel segno di chi educa i figli insegnandogli che tenere un’arma potente tra le mani, una di quelle che sgancia “le botte” – i proiettili – grandi rende “il padrone”. È impressionante l’analogia concettuale che trapela accostando le dichiarazioni rilasciate da “faccia janca” davanti all’obiettivo, a quelle intercettazioni in cui Annunziata D’Amico fornisce ai suoi figli-gregari consigli utili sulle armi da utilizzare, esaltandoli ed incitandoli all’uso delle stesse.

Un cerchio che si chiude in maniera chirurgicamente perfetta e che ben spiega perché per Mariano abbracciare un kalashnikov era “come una Belen tra le braccia”.
 

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