Esistono “omicidi” e “omicidi”.
Per quanto Ponticelli possa essere un quartiere avvezzo ad accogliere morti violente, non tutte sortiscono le stesse reazioni né hanno lo stesso impatto sull’opinione pubblica.
Lo scorso sabato sera, nel cuore della notte a cavallo tra il 13 e il 14 agosto, nel campo rom di via Virginia Wolff, una lite tra gli abitanti del villaggio è degenerata a tal punto da portare un uomo ad afferrare un coltello e sferrare plurimi colpi contro il suo interlocutore.
Un contenzioso annegato nel sangue: una vicenda che, se avesse avuto per protagonisti due “italiani purosangue”, avrebbe scatenato l’indomabile e puntuale inferno mediatico.
Eppure, nonostante si tratti dell’ennesima morte violenta maturata tra le mura di un quartiere in cui questa stessa forma mentis dilaga, troneggia e spaventa, la reazione collettiva è controversa.
“Siamo stanchi dei problemi che i rom continuano a portare nel nostro quartiere – scrive un abitante di Ponticelli – e l’episodio dell’altra notte lo dimostra. Solo per caso si sono uccisi tra loro, anzi, finché si uccidono tra loro è anche un bene cosi si eliminano con le loro stesse mani, ma il problema è serio e merita di essere esaminato con attenzione per evitare che si arrivi di nuovo a quello che è successo qualche anno fa e che sia di nuovo la gente di Ponticelli a provvedere a cacciare i rom dal quartiere.”
“Quello che è successo qualche anno fa”: un campo rom dato alle fiamme nel cuore della notte da parte di personaggi “discutibili” del quartiere che, a suon di molotov, inoltrarono agli abitanti di quel villaggio l’inequivocabile invito ad abbandonare il quartiere.
“Ci ha dovuto pensare la camorra a scacciare queste gente. Quando si dice che la camorra offre servizi!”: commenta un abitante di Ponticelli.
“Bella l’iniziativa delle molotov”: commenta un altro esponente di quella corrente di pensiero che sembra voler fortemente auspicare ad una riproposta di quel raid, sprezzanti delle vite umane che abitano – e muoiono – anche in quel campo, proprio come accade in tutti gli altri contesti “difficili” del quartiere.
Eppure, per i “figli del degrado e della povertà”, dovrebbe essere più facile comprendere le condizioni e le emozioni di chi faticosamente arranca in quella stessa barca. A prescindere dal colore della pelle e della lingua parlata. Già, perché quel: “quando parlano, non si capisce niente”, potrebbe essere facilmente applicato ed esteso anche a molti abitanti locali, sul cui capo, però, pende l’aggravante di essere italiani, ma non saper/voler riuscire a comportarsi come tali.