Immigrati e giovanissimi: sono principalmente loro le vittime dell’attentato di Monaco.
Un pomeriggio di terrore il cui bilancio è di 10 morti (cinque giovani e 4 adulti), di cui uno è l’attentatore, e 27 feriti. Avevano tra i 13 e i 21 anni otto delle nove vittime della carneficina nella quale è morta anche una donna di 45 anni.
L’artefice di tutto è un diciottenne vittima di bullismo che ha aperto il fuoco in un ristorante McDonald’s, dopo aver attirato lì alcuni giovani tramite un finto profilo Facebook, per proseguire l’opera in un affollato centro commerciale della periferia a nord di Monaco.
Mentre a tenere banco è il “Toto-Isis”, ovvero, in un primo momento, tutto aveva lasciato presagire che si trattasse dell’ennesimo attentato di matrice islamica e c’è chi, tuttora, continua a supportare questa tesi.
Ma, soprattutto, a dominare la scena è il puntuale e raccapricciante valzer di immagini e video che dilagano in rete così come attraverso gli organi di informazione “classici”.
In ogni caso, a pochi giorni di distanza dalla strage di Nizza, l’Europa torna a piangere e tremare.
“L’Europa si sta abituando agli attentati”: questa l’opinione degli “esperti in materia” e che ben racconta la reazione che tante persone presenti sul posto hanno inscenato durante quegli attimi di follia insorti a Monaco. Esorcizzato lo choc che ha contraddistinto i primi attentati dell’Isis, adesso, i cittadini sembrano aver in qualche modo familiarizzato con l’eventualità di uscire di casa ed imbattersi in un guerrigliero pronto a farsi esplodere o a scaricare contro una folla di civili una svantaggiata di proiettili. Lo comprova la considerevole quantità di video e foto amatoriali che ritraggono gli attimi dell’attentato di Monaco e soprattutto le tantissime foto che ritraggono i cadaveri. Corpi crivellati da proiettili dai quali gronda sangue ancora vivo.
Tutti ne sono consapevoli, i programmi strappalacrime in scena nei salotti televisivi di casa nostra lo insegnano: questo modo di fare informazione attira attenzione e suscita interesse. E, in nome dell’audience, tutto è lecito.
Ma a quale costo?
Se quei corpi appartenessero a un nostro familiare, ci piacerebbe vedere la sua agonia sbattuta in faccia al mondo, in barba al doveroso rispetto che la morte dovrebbe imporre?
Non c’è più posto per il buon senso, l’etica e le interrogazioni di carattere morale, questo appare chiaro, soprattutto nell’era in cui i social ti consentono di diventare una star, se riesci a postare la foto o il video giusti, quelli in grado di catturare clic, scalpore e condivisioni. L’automatismo indotto che puntualmente si ripropone come prima e immediata risposta al cospetto di un “fatto eclatante” è proprio questo: scatto una foto e la pubblico su facebook o instagram, così lo racconto prima di tutti. È un dato di fatto con il quale dobbiamo assolutamente iniziare a confrontarci.
Sull’altro versante ci sono i canali “ufficiali” mediante i quali l’informazione deve essere veicolata avvalendosi di regole che, troppo spesso, vengono sbeffeggiate ed eluse, proprio per cedere il passo al “festival dell’audience”.
L’informazione si tramuta in spettacolo e le notizie in morbose – talvolta disgustose – scene che mortificano la dignità umana e poco o nulla aggiungono alla tragicità della vicenda che si è chiamati a documentare.
A prescindere dal macabro fascino che può destare la foto di un cadavere, che si parli di un attentato di matrice islamica o di un agguato di camorra, cambia la forma, ma non la sostanza. Fotografi e reporter “devono” accaparrarsi le “scene e le immagini da audience” e il sangue deve essere in bella vista, perché, da sempre, rappresenta “l’effetto speciale” capace di suscitare l’impatto emotivo più forte.
Tantissime foto sono giunte alla nostra redazione da parte di napoletani residenti a Monaco che ritraggono proprio gli attimi immediatamente successivi all’agguato maturato all’interno del centro commerciale lo scorso venerdì.
Immagini molto forti, strazianti, atroci che raccontano di disperazione e morte.
Ma che senso ha renderle pubbliche?
C’è chi si raccomanda di “vedersi citare” nell’articolo, per assicurarsi che quello slalom tra cadaveri sanguinanti gli valga almeno gli agognati scampoli di notorietà “guadagnati sul campo” e chi, invece, allega saluti a parenti ed amici, come si è soliti fare quando si spedisce una cartolina.
Se questa non fosse l’era in cui il desiderio di apparire elude, sbeffeggia e denigra i principi e i valori che nutrono l’essere, si potrebbe sperare che almeno al cospetto della morte, la “fotomania” impari – o ritorni – a fare un doveroso passo indietro.