Fa caldo in tutta Italia, ma a Napoli di più.
L’aria che si respira alle pendici del Vesuvio è tremendamente pesante, poiché intrisa di afa, malcontento, esasperazione ed avversione. Verso tutto e tutti.
Un tempo, questo era “il popolo allegro” per antonomasia, adesso, i volti dei napoletani sono privi e scarni di quella gioviale e goliardica maschera che ne rende inconfondibile la mimica facciale e risultano, piuttosto, capaci mostrare la propria, vera e spoglia, essenza. Complici i disservizi che, ormai, in questa città si sprecano e che si fa, perfino, fatica ad annoverare nella loro triste totalità, e non solo: precariato, disoccupazione, crisi economica, oltre ai soliti e noti problemi che da decenni, se non da secoli, viaggiano di pari passo con la storia di questa città e che concorrono a fungerne da parte integrante.
I napoletani camminano per strada, noncuranti del mondo che li circonda, mossi dall’esclusivo intento di dirigersi verso l’obiettivo che si sono prefissati prima di varcare la soglia di casa: recarsi a lavoro, all’università, piuttosto che nella sede in cui sono stati convocati per sostenere un colloquio, mossi dalla speranza che possa essere quello decisivo per risollevare sorti economiche ed emotive, in ogni caso, non fa differenza. Tutti hanno lo stesso sguardo e la stessa, indomabile ed irrispettosa, fretta.
Ed è quell’ardente ed irriverente impellenza che li induce a spintonare, calpestare, strattonare, chiunque funga da intralcio.
In virtù di questo intransigente atteggiamento, i servizi di trasporto pubblico, che, di per sé, non primeggiano per quanto attiene efficienza e buon funzionamento, rappresentano, senza dubbio, la goccia che fa traboccare il vaso, satollo di intolleranza e frustrazione, che pende sul capo dei napoletani.
La circumvesuviana, la metropolitana “vecchio stile”, la cumana e la circumflegrea, per non parlare degli autobus, perennemente stracolmi di anime, sudate ed esasperate, dal caldo asfissiante, enfatizzato dalla puntuale e scontata assenza di aria condizionata negli scompartimenti, nei quali riuscire ad accaparrarsi un posto a sedere è già un dato del quale vantarsi.
Nelle ore cruciali, quando il sole batte e il traffico, piuttosto che la frenesia che contamina la quotidianità di noi tutti, paralizzano la città, sotto ogni aspetto, l’attesa del mezzo di locomozione utile per raggiungere la destinazione auspicata, diventa un corso di sopravvivenza improvvisato, che tasta l’autocontrollo e la capacità di mantenere i nervi saldi di coloro che piantonano marciapiedi e banchine, per interminabili minuti, che, frequentemente, possono convertirsi in ore.
Imprecano, sbuffano, indirizzano occhiate sprezzanti ai loro compagni di sventura, perché in loro vedono un potenziale nemico da eludere e neutralizzare, per varcare per primi la soglia della porta della metro o dell’autobus, una volta che giungerà dalle loro parti, mossi dall’effimera e vana convinzione che, quell’ “arrivare per primi”, possa arrecare qualche vantaggio a sé stessi, alle loro vite.
Una sorta di gara senza trofeo che non concorre ad iniettare gloria e lustro, ma piuttosto svilisce la dignità dei partecipanti ed, ancora di più, quell’innato senso di solidale cordialità che, da sempre, ha contraddistinto l’ideologia napoletana e che ora sembra essere soffocata dall’afoso, appiccicoso, stretto ed indistricabile nodo attorcigliato tra cuore ed anima di questo popolo.
E’ “la gara dei furbi”, quella che sa sviscerare il peggio di ciascun napoletano, quella che palesa che non esiste più il riverenziale ed accorato rispetto per gli anziani, quello che esortava a dare loro precedenza e preservagli un posto a sedere.
Il sole, come un enorme riflettore puntato sulle loro coscienze, evidenzia l’indomito egoismo che trasuda dai loro pori, insieme al sudore.
“E’ la corsa per accaparrarsi il posto”, per entrare prima degli altri, perché non ci si può permettere di rimanere lì, ad aspettare Dio solo sa per quanto tempo ancora, un altro mezzo utile. No, ogni potenziale passeggero ha più fretta dei suoi antagonisti di turno e quello che si ha da fare ha carattere maggiormente prioritario ed irrinunciabile, rispetto agli impegni degli altri compagni di viaggio.
Questo è quanto trapela dalle discussioni innescate da chi, animato da quell’ingestibile e frenetica fretta, non vuole introdursi negli scompartimenti più caldi ed affollati del vagone e sosta accanto alla porta, ostruendo, così, la salita di altri passeggeri.
In quel momento, inevitabilmente, inizia il gioco al rialzo: “Io devo salire, ho un altro treno da prendere e non posso perderlo!”, “Io soffro di claustrofobia, non posso spostarmi da qua!”
E si potrebbe andare avanti all’infinito a vomitarsi reciprocamente in faccia le proprie intoccabili priorità, armandosi di un’inesorabile e rigida inclemenza che, si fa fatica a percepire come appartenente all’indole di questa stirpe.
Quando la disputa ha fine, le anime che sono riuscite ad accaparrarsi un posto sulla barca di Caronte, iniziano “il viaggio della speranza”, in cui chi sale è animato da ancor più celere sollecitudine e, pertanto, non ha tempo di attendere che chi deve abbandonare la vettura sia sceso ed è lì che comprendi che in realtà è un “viaggio di disperati”.
Nessuno sorride, neanche al cospetto di un bambino che gioca con la madre, ma, anzi, costui è oggetto di una dose ancor più elevata di disprezzo perché, il suo ingombrante carrozzino, occupa più spazio e se, per effetto del caldo o semplicemente per noia, quell’inconsapevole cucciolo d’uomo, dovesse scoppiare a piangere, rischia di fungere da input per l’innesco di una piccola rivolta popolare.
Allora, risulta lapalissiano che, questo popolo, sopraffatto dalla celere impellenza che ne infervora mente, cuore ed anima, non sa più realmente dove sta andando e verso cosa è davvero diretto.
Tuttavia, se i napoletani si fermassero a riflettere, forse, comprenderebbero da cosa si stanno allontanando.