E mi ritrovo lì, in via Ghisleri, a due passi dall’autolavaggio nel quale lavorava Ciro Esposito, in “quella Scampia” erta a fiction televisiva, ma che è anche “quella Scampia” di Ciro Esposito.
Quella che si plasma davanti ai miei occhi è una Scampia avvolta in una morsa di avvilente ed esasperante afa, straziata, sfinita.
Eppure i tricolori affissi ai balconi, le bandiere raggomitolate come mazzi di fiori e vendute per strada, testimoniano la grande voglia di far festa che, nonostante tutto, regna da queste parti.
Bandiere come ancore alle quali aggrappare quel desiderio di trasformare lacrime in sorrisi. Desiderio lecito e semplice, eppur così proibitivo da perseguire: questo è lo stendardo cucito nelle bandiere che sventolano nel cielo di Scampia.
Mentre i miei piedi calpestano la terra nella quale si è svolta la quotidianità di Ciro Esposito, fino a prima che la sua vita e la sua normalità venissero perforate da quel proiettile, mi appare, per la prima volta, effettivamente e brutalmente chiaro il suo dramma, spoglio ed agghiacciante nelle sue reali fattezze, scevro da perbenistiche e qualunquistiche maschere.
Percorrendo le sue strade, non è difficile immaginare le sue scene di ordinaria normalità.
I suoi amici, compagni di trasferte e di quei momenti di semplice e genuino svago e condivisione, quelli che appartengono a tutti i ragazzi “normali”, di Scampia, di Bolzano, di Parigi, del mondo intero.
Nei loro occhi si legge la stessa costernata rassegnazione che rende l’aria afosa, appiccicosa, insopportabile: “Non riusciamo a mandare giù il modo in cui è stato descritto Ciro: un rissoso, un attacca brighe… Ciro era un bravo ragazzo che ama la sua squadra e non era andato a Roma per cercare scontri, ma solo per seguire il Napoli.”
Ho preferito fermarmi a pochi metri dall’autolavaggio, perché immaginare Ciro intento a vivere la sua quotidianità marcando quel disegno di fantasia con i caratteri della probabile utopia era una condizione che mi proiettava verso uno stato emotivo crudelmente doloroso. Eppure, prima della tragedia di Roma, non sapevo neanche chi fosse Ciro.
Allora, solo allora, da quella prospettiva, il dolore di Scampia mi è apparso nudo e palpabile.
Sagome sedute accanto alla fermata del pullman, in attesa che quel rottame di passeggeri maleodoranti e ferri arrugginiti giunga a portarli via da lì o paradossalmente sedute lì, in attesa del nulla, perché stanche di aspettare.
Scampia è uno stato d’animo rilevabile negli occhi e sui volti di tutti i suoi figli.
Ad ogni angolo, in ogni sfumatura di colori ed intenzioni, si cela una frase non detta e una sensazione da cogliere.
Il cielo a Scampia è come un camaleonte che si adatta agli stati d’animo che quella stessa terra gli consegna: una pioggia timida ed appiccicosa, dopo aver battagliato per un po’ con il sole, infatti, lentamente striscia dall’alto verso il basso.
Beffarda e sadica, in quanto incapace di alleviare le pene sortite dall’afa, quella pioggia sottolinea l’incapacità di chi potrebbe e non sa o non vuole, irrigare e nutrire l’aridità che troneggia da queste parti, abbeverando la siccità di giustizia e verità.
No, Scampia non è “la terra di nessuno” né “la terra di Gomorra” è e sarà sempre “la casa di Ciro Esposito”.