Una sparatoria dietro le quinte di un concerto rap, a Irving Plaza a Manhattan. Sul palco del club a due passi da Union Square doveva esibirsi il noto rapper T.I., quando nella area riservata ai Vip sono stati esplosi diversi colpi d’arma da fuoco. Il bilancio di una serata nata nel segno della musica e sfociata nel sangue è di un morto e almeno 3 feriti.
Una notizia che desta scalpore, soprattutto agli occhi di chi quel famigerato “mondo rap” lo conosce attraverso fugaci orecchiate di rime indecifrabili.
In realtà, la parola “rap” rappresenta un microcosmo, articolato e complesso, di ideali e regole comportamenti e morali ben definite.
Una moda, uno stile che in Italia sta attualmente vivendo la sua fase più dilagante. Pertanto, per capire cosa si cela dietro quel credo marcato da abiti XXL, parole “dure” urlate al microfono e collane possenti, abbiamo chiesto ad uno degli esponenti più autorevoli della scena partenopea di raccontare la “realtà rap”.
Ivanò, voce de “La Pankina Krew” una band che racconta il grigio della periferia est di Napoli a suon di rime e testi crudi, sinceri, forti. Una passione, quella per il rap, nata proprio grazie al “mito americano” per Ivan e che lo ha portato a diventare “Ivanò”.
“In America il rap è diffuso e popolare, come qui a Napoli lo è la musica neomelodica. – spiega Ivanò” – Mentre nei bassi e nelle case popolari di Napoli riecheggiano le hit neomelodiche, nei ghetti americani questo stesso seguito lo ricopre il rap.
I testi dei rapper americani raccontano storie di strada, lo spaccio di droga, la delinquenza, la prostituzione. Basta pensare che anche moltissimi rap attualmente famosi in tutto il mondo, in passato, anche all’inizio delle loro carriere, vendevano crack ed erano coinvolti in prima persona nella malavita locale, rischiando la vita ogni giorno per delinquere.
Inoltre, la facilità con la quale la legge permette l’acquisto di un’arma, rende l’esaltazione e il fanatismo perfino pericolosi. In America le armi sono un culto. Così come il ragazzi con la fissa della tecnologia si accolla ore di fila per comparsi l’ultimo I-Phone, così in America ci sono giovani che guardano alle armi con la stessa acquolina in bocca. Chi appartiene ad una gang, compra un’arma per sentirsi più forte e questo fomenta l’esaltazione e la predisposizione a delinquere.
La gang di una zona sa bene a cosa va incontro se passa in un territorio che non è “zona loro”, sotto quest’aspetto, la realtà americana è molto peggio di quella napoletana.
È molto brutto che i dissidi e i “conti aperti” che insorgono tra le gang per ragioni legate alla criminalità e alla malavita si riversino sulla musica com’è successo a Manhattan. La musica, in quella circostanza, fa da cornice alla sparatoria, ma non è il movente.
Quei colpi di pistola possono essere stati esplosi per diverse ragioni: per punire uno “sgarro”, per un regolamento di conti o anche solo perché i membri di quella gang possono aver deriso e preso in giro o mancato di rispetto al membro di un’altra gang. Oppure, dietro può esserci una ragione ben più grande, legata ad interessi di quartiere.”
Un modo di vivere e pensare che trova piena e compiuta espressione nei testi cantati da quegli stessi rapper: “il condizionamento che può innescare quel genere di messaggio è un fatto molto soggettivo. – spiega Ivanò – Può succedere che un ragazzo erga a modello il suo idolo. Anche io quando canto le mie strofe sono molto aggressivo e anche nei miei testi ci sono contenuti forti. Il gangasta rap è il genere che mi ha avvicinato a questo mondo, si tratta di un genere musicale derivato dal rap, che attraverso testi esplicitamente violenti e talvolta omofobi, si sofferma su temi come droga, sesso, armi, e in generale le attività criminali inerenti allo stile di vita delle bande di strada e dei gangster, ma quando ascoltavo quella musica non ho mai pensato di scendere per strada ed emulare il messaggio che ascoltavo, impugnando una pistola o facendo a pugni con qualcuno. Il rap americano è molto diverso da quello italiano, parte da una condizione di disagio reale, è un’arma utilizzata soprattutto dai rapper di colore per denunciare soprusi da parte della polizia e tutti gli altri fenomeni di razzismo che tutt’oggi sono costretti a subire. Il rap, in quei casi, è una valvola di sfogo nella quale il rapper rigetta uno stato di malessere.
Allo stesso modo, un rapper di Scampia, di Ponticelli, del Parco Verde, dello Zen di Palermo e di qualsiasi contesto disagiato, cresce con la consapevolezza che poteva imboccare una determinata strada, quindi gli viene spontaneo parlare di quelle realtà e di quelle problematiche.
Quello che ogni rapper dovrebbe capire è che la musica dovrebbe fare aggregazione non generare odio e portare le persone a farsi la guerra. Non approvo assolutamente la politica adottata dagli “pseudo-rapper” di casa nostra che nei loro testi incitano a drogarsi, a fare danni, fomentando messaggi di odio. Non è positivo che il messaggio che passa attraverso le loro canzoni sia, ad esempio: “mi faccio la cocaina e sono bello”. È una “responsabilità” anche nostra veicolare attraverso la nostra musica dei messaggi positivi per chi ci ascolta.”