Giuseppe Matino, 35 anni, nessun precedente penale, una moglie conosciuta sui banchi di scuola, con la quale è convolato a nozze pressoché 20enne e con la quale ha avuto due figli, di 14 e 12 anni, viveva insieme a loro in una casa al piano terra di via Filippo Maria, nel cuore di Calata Capodichino, alle porte del centro di Napoli.
Una vita trascorsa a sgattaiolare e a destreggiarsi tra più lavori, umili, onesti, rigorosamente a nero.
È lui l’ultima vittima di un agguato, consumatosi all’alba di ieri, 11 aprile: un identikit tutt’altro che confacente a quello di un criminale.
I sicari hanno raggiunto Giuseppe mentre in sella al suo scooter stava raggiungendo la pasticceria dove lavorava e gli hanno esploso contro tre colpi di pistola che lo hanno raggiunto al torace. Giustiziato come un boss, Giuseppe, lui che con la malavita organizzata non aveva nulla da spartire.
Un delitto efferato che ha profondamente scosso la famiglia Matino, una famiglia umile abituata a macinare sacrifici per tirare avanti, nel segno dell’onestà Alfredo Matino, il capofamiglia, aveva cresciuto Giuseppe e sua sorella Teresa. Alfredo, professione imbianchino, separato dal ’92, nonostante la scelta di lasciare sua moglie, non ha mai abbandonato né perso di vista i suoi figli. Vive a Mugnano ed è lì che suo figlio Giuseppe ha trascorso l’ultima domenica e le ultime ore della sua vita. Un pranzo consumato a casa del padre, insieme a sua moglie e ai suoi figli, come avveniva di solito. Piccole ed importanti abitudini, quelle che scandiscono la vita di un uomo comune che mai avrebbe immaginato di morire giustiziato come un boss.
35 anni trascorsi a macinare sacrifici, Giuseppe svolgeva più lavori, si era sposato giovane, a soli 20 anni e i soldi per mantenere una famiglia composta da due figli adolescenti, non sono mai abbastanza.
Anche all’alba dello scorso lunedì, quando a sbarrargli la strada ha trovato i suoi killer, Giuseppe si stava recando in una pasticceria in Vico Leone, una delle cupe stradine che s’intersecano tra via Cristoforo Colombo e via Depretis.
Lì, Giuseppe, si occupava di consegnare i cornetti ed lì che si recava ogni mattina all’alba. Sfruttava le sue abilità di autista capace, quando poteva, per lavorare come spedizioniere.
Una vita abbastanza schematica quella del 35enne, ultima vittima di un agguato di chiara matrice camorristica, tra le cui ordinarie abitudini si fa spazio un unico neo: all’incirca un mese fa, Giuseppe è stato vittima di una “mazziata”, un episodio di poco conto, secondo qualcuno, un’intimidazione secondo altri.
Un fatto confermato dagli investigatori e che i parenti minimizzano.
Tra le chiacchiere di quartiere, tuttavia, serpeggia un’illazione che conferisce una sorta di potenziale legittimità al movente passionale ed è quella che accosta Giuseppe ad una donna sposata e separata dal marito, il quale risulterebbe legato alla criminalità organizzata.
Un agguato che cade a pochi mesi di distanza da un altro omicidio sorto nel segno dello “sgarro” inferto ad un uomo d’onore prestando attenzioni alla “donna sbagliata”: quello di Vincenzo Amendola, il 18enne prima trucidato e poi seppellito in un terreno incolto nel Bronx a San Giovanni a Teduccio.
Entrambi estranei alle vicende camorristiche, ma ugualmente finiti nel mirino dei cecchini per mano della “donna sbagliata”.
Qualora gli inquirenti dovessero avvalorare la pista del movente passionale, la criminalità organizzata saprà consegnarci l’ennesimo e macabro scenario in grado di delineare il volto sempre più intransigente ed irriverente della camorra che proprio non sa perdonare chi infrange certe regole d’onore.