Ci ha lasciato l’avvocato Renato De Falco, noto studioso della lingua napoletana. Tutti i napoletani, non più ventenni, ricorderanno sicuramente le sue lezioni televisive di Alfabeto napoletano in tempi in cui le battaglie identitarie erano un impegno di poche ed eletti menti. Oggi le cose sono molto cambiate: grazie ai nuovi mezzi di comunicazione ed al lavoro volontario ed instancabile di storici, di studiosi e di blogger una prospettiva ed una consapevolezza nuova si è diffusa a tutti i livelli, raggiungendo con immediatezza parti di popolazione che altrimenti sarebbero rimaste completamente escluse da ricerche e da prospettive troppo specialistiche.
Sicuramente sentiamo oggi la mancanza di profeti come Angelo Manna, Salvatore Tolino con il suo raffinato Salotto, Renato De Falco, che precorsero i tempi in tempi non sospetti, ma ora spetta a noi raccoglierne l’eredità e compiere il passo in avanti.
Oggi i tempi sono maturi per cercare di diffondere l’uso di un napoletano aulico, curiale, illustre, liberato dall’imbarbarimento e dall’incuria, reso lingua di cultura viva e parlata.
Prendiamo l’esempio del catalano, che fino a trent’anni fa giaceva in cattive condizioni e che non possiede- absit iniura verbis – la ricchezza letteraria, il patrimonio di poesie e canzoni e la diffusione mondiale del napoletano, ma che grazie all’eccellente lavoro della Direzione Generale di Politica Linguistica del Dipartimento di Cultura della Generalitat de Catalunya,è riuscito ad imporsi a livello istituzionale internazionale come lingua autonoma. Sin dai Placiti campani del X secolo, primo documento ‟ufficiale” (si tratta di atti notarili) di una lingua romanza nella penisola italiana, alla famosa Epistola napoletana indirizzata a Franceschino dei Bardi di Giovanni Boccaccio – napoletano di adozione ed amante della città per l’intera sua vita – scritta per metà in napoletano e metà in toscano, alla Napoli capitale del Regno aragonese, che produsse una importante fioritura letteraria, considerando il napoletano già come lingua nazionale, a Cortese, Basile, fino ai più recenti Petito, Di Giacomo, Russo, Viviani, Scarpetta, De Filippo e tanti altri. Del resto lo stesso Vincenzo Cuoco, autore del celebre Saggio storico, lamentava l’uso letterario ‟per moda” del toscano al posto della lingua meridionale (che lui chiamava pugliese), altrettanto, e forse più, degna di essere una lingua letteraria di livello sommo.
In questo senso sta svolgendo un ottimo lavoro l’amico M. Verde con l’associazione Notre Napule ‘a Visionaire per la diffusione e lo studio della lingua napoletana anche oltralpe. Per questo credo che anche le isituzioni locali debbano impegnarsi in una politica di ricerca e difesa della lingua, anche e prima di tutto a livello nazionale, liberandola dal pregiudizio degli sciocchi e dalla incolta e provinciale (in questo caso davvero) relegazione a piccola realtà ‟dialettale” e ‟locale”.
In un mondo sempre più globalizzato ed uniformato la riscoperta dell’Identità, ed in primis della lingua, è opera quanto mai preziosa ed indispensabile per affrontare le sfide della modernità, che ci possono prospettare da un lato un nirvana della consapevolezza di ciò che realmente siamo e da un altro una parcellizzazione di una guerra globale, portata fin dentro il cuore delle città, di impressionante ed inaudita violenza.
La lingua napoletana non può e non deve, quindi, essere lasciata allo scempio della fasulla napoletaneria da baraccone di piccoli umoristi televisivi o all’orribile bercio neomelodico. Anche questo è stato l’insegnamento dell’Alfabeto napoletano.