Protagonista indiscussa del processo a carico degli scissionisti è “la dissociazione”.
Non è un pentimento né una forma di collaborazione, ma un sagace artificio giuridico che altro non fa che sottolineare quanto vacillante, obsoleta e lacunosa appaia la legislatura italiana al cospetto di avvocati abili a sovvertire sentenze erroneamente ed apparentemente date per scontate.
I capi degli scissionisti – anche se manca ancora all’appello l’altro padrino, Lello Amato – potrebbero dunque voler tentare di chiudere definitivamente i conti aperti con la giustizia per merito della sanguinosa faida di Scampia.
Appellandosi alla “dissociazione” Cesare Pagano, uno dei capi del clan degli scissionisti, ha evitato l’ergastolo.
I giudici della Corte d’assise d’appello di Napoli lo hanno condannato a 30 anni di carcere per due omicidi di camorra.
Rispondeva dell’omicidio di Salvatore Dell’Oioio, assassinato il 24 febbraio 2005 a Qualiano per motivi interni al clan, e dell’omicidio di Carmine Amoruso, prima uomo dei Di Lauro poi passato con gli scissionisti e da questi ucciso per dissidi interni al gruppo il 6 marzo 2006 nei pressi della sala bingo di Mugnano.
Difeso dagli avvocati Saverio Senese e Luigi Senese, Pagano ha ottenuto oggi le attenuanti e la condanna ridotta a 30 anni.
“Sono io il mandante di questi omicidi. Chiedo perdono alle famiglie e mi dissocio dalla camorra”: con queste parole, Pagano ha costruito le premesse grazie alle quali ha scongiurato l’ergastolo. Nessuna collaborazione con la giustizia, dunque, ma solo il riconoscimento delle proprie responsabilità. Devono aver tenuto conto della sua confessione, di quell’ammissione arrivata poco prima che scorressero i titoli di coda su un processo lunghissimo, durato anni e passato per le meticolose indagini dei pm della Dda, per una condanna all’ergastolo annullata in Cassazione con rinvio davanti a nuovi giudici di secondo grado per riaprire il dibattimento e vagliare le dichiarazioni di ex affiliati che nel frattempo si erano aggiunti alla lista dei collaboratori di giustizia.
Assolti gli altri due imputati, zio e nipote, accusati di aver dato ai killer informazioni utili per individuare e rintracciare Dell’Oioio finito nella lista nera del boss. Nessuna condanna per Antonio Marrone (difeso dall’avvocato Claudio Davino) e per Teresa Marrone detta Nikita (difesa dall’avvocato Giosuè Naso).