Il giorno in cui avvenne il primo incontro tra me e i bambini del parco Merola di Ponticelli lo ricordo bene. Era un soleggiato pomeriggio primaverile, la scuola era quasi finita e un gruppo di ragazzini stava giocando a calcio in uno dei decrepiti androni che si susseguono tra quei grigi palazzoni.
Mi avvicinai in punta di piedi, quasi certa che non sarei riuscita a distogliere per molto tempo la loro attenzione dal pallone. Iniziammo a parlare del più e del meno, poi, osai rivolgergli la fatidica domanda: “conoscete Carmelo Imbriani?” uno di loro, sgranò gli occhi e con voce entusiasta replicò: “Si, giocava nel Napoli!”
Allora, il pallone fu stoppato e tutti si riunirono intorno a me.
In quel momento capì che stavo giocando “la mia opportunità”, quello era il mio calcio di rigore e dovevo assolutamente fare gol. Dopo aver ascoltato la storia di Carmelo, quei bambini vollero scrivere una lettera a suo fratello Gianpaolo e tra le tante cose lo invitarono lì, una volta di ritorno dal suo viaggio intorno al mondo.
Poi, quei bambini, mi presero per mano e mi portarono al centro del parco, lì dove giace la fatiscente carcassa del loro campo di calcio: “ti sembra giusto che dobbiamo giocare su un campo così?” no, non lo era e non lo sarà mai. Nessun bambino dovrebbe dribblare chiodi arrugginiti e rischiare di sfaldarsi il cranio cadendo su una pedana di cemento.
Allora, decisi di accendere i riflettori su quelle “piccole voci” affinché il loro diritto all’infanzia trovasse legittima rivendicazione. E così è stato. Nelle ore successive alla pubblicazione di quell’articolo che raccontava il degrado di quel contesto, il Comune di Napoli divulgò il suo verdetto: i bambini del parco Merola di Ponticelli avranno un campo di calcio degno di questa definizione.
Da quel giorno, io e quei bambini, abbiamo iniziato a scrivere una delle storie più belle sorte nel segno di un modello sportivo.
“Non importa se vinci o se perdi, se giochi nel rispetto delle regole e dell’avversario puoi sempre uscire dal campo a testa alta”: questo il messaggio che la storia di Carmelo ha consegnato a quei bambini e che gli ho visto applicare tutte le volte che giocavano a calcio.
Gianpaolo Imbriani ha accolto il loro invito, ci è venuto davvero nel parco Merola e ha portato con sé quello stesso striscione intorno al quale si sono raggruppati i bambini del Sudamerica e di molte altre città del mondo.
Gianpaolo ha lasciato in dono ai bambini “i colori di Imbriani”, raccolti in un porta pastelli sul quale è raffigurata l’effigie di Carmelo, affinché potessero tingere i loro disegni con i colori della magia. È nato così il desiderio condiviso di intitolare quel campo di calcio proprio a lui. Già, quel campo di calcio doveva essere il primo intitolato a Carmelo Imbriani.
Tra me, quei bambini, la promessa e il sogno di Imbriani non mollare e l’effettiva possibilità di convertire quell’entusiasmante unione di intenti in un progetto sociale è franata la violenza. Su quello stesso campo di calcio che ha accolto delle emozioni così autentiche, ho subito un’aggressione. Una ragazza mi ha picchiata, mentre i bambini, sconvolti ed attoniti, assistevano terrorizzati a quelle scene di violenza. Un mese dopo, anche i suoi genitori, per rimarcare il messaggio, mi hanno nuovamente aggredita.
Perché?
Il tempo saprà consegnarci la risposta più sensata, ammesso che possa essercene una in grado di legittimare un’onda di violenza che ha arrestato un percorso d’amore.
Cosa resta nel parco Merola della storia di Carmelo?
Un messaggio più forte della violenza, perché è stato capace perfino di sopraffare la morte e pertanto incrollabile.
“Imbriani non mollare” è e continuerà ad essere un monito perentorio che vuole trasformare la storia di una promessa e di un sogno in una delle favole più belle scritte da un eroe moderno.
No, non mollo: lo devo anche e soprattutto a Carmelo.