La strage del bar Sayonara: una delle vicende di cronaca più cruente della storia della criminalità organizzata, una ferita che sanguina ancora nel cuore del quartiere Ponticelli, teatro di quel feroce agguato costato la vita a persone innocenti, colpevoli di essersi trovate lì, sulla scena di un imprevedibile agguato di camorra, allorquando dei killer sono entrati in azione per rispondere al sangue con altro sangue.
Era l’11 novembre del 1989, era un sabato sera come tanti, tramutatosi in pochi attimi in un incubo. Scene da far west catapultate nella vita reale, capaci di tingere con i colori dell’inferno una delle strade più battute del quartiere Ponticelli.
A 27 anni di distanza da quella tragedia, giungono le sentenze definitive da parte della Cassazione.
Ciro, Antonio e Giuseppe Sarno, Giovanni, Ciro e Gennaro Aprea, Vincenzo Acanfora, Luigi Piscopo, Gaetano Caprio, Roberto Schisa, Pacifico Esposito: tutti condanni al carcere a vita.
Sedici anni per Giuseppe Esposito.
Una strage “comandata” dal clan Sarno per vendicare la morte di Vincenzo Duraccio, uno degli affiliati al clan, ucciso nel corso della faida in corso all’epoca con il clan Andreotti per il controllo degli affari criminali nella periferia est di Napoli.
A far luce sulla strage sono gli stessi mandanti, Vincenzo e Ciro Sarno, due boss che negli anni ’80-’90 hanno ricoperto un ruolo egemone nell’ambito della configurazione dello scenario criminale all’ombra del Vesuvio, attualmente pentiti e pertanto confluiti nelle vesti dei collaboratori di giustizia.
La camorra che fa e disfa, che ordina e non prevede, che ammazza e non perdona, che sbaglia, incappando in quel genere di errori ai quali non si può porre rimedio. Perché un errore della camorra è assai più madornale, soprattutto se sporco di sangue innocente.
L’obiettivo dell’agguato messo a segno quella sera di novembre di 27 anni fa era Antonio Borrelli detto “’o cappotto”, uomo di fiducia del clan Andreotti. A rivelarlo sono gli stessi boss pentiti.
Emblematiche, in tale ottica, le rivelazioni di Ciro Sarno: il cugino Pacifico Esposito, gli telefonò per dirgli che quelli di Barra, ovvero i sicari ai quali era stato commissionato l’agguato, erano drogati, quindi poco lucidi. Ciò nonostante Ciro Sarno diede l’ordine di procedere. Il morto si doveva fare quella sera.
Una costante che si ripete, invariata, una sorta di macabro e tacito rituale, quello dei killer che prima di “fare il pezzo”, ovvero mettere a segno un agguato, pippano cocaina, per enfatizzare il senso di esaltazione, esponendosi così ad una maggiore probabilità di imbattersi in un errore di precisione che troppo spesso costa la vita ad anime esenti da colpe ed estranee alle logiche criminali.
Per diversi minuti i killer sparano all’impazzata dentro e fuori il locale. Il primo ad essere colpito e a cadere è il pregiudicato Antonio Borrelli, di ventisette anni. Quando lo raccolgono dà ancora qualche segno di vita. Muore mentre lo trasportano all’ ospedale Loreto Mare. Il padre è il gestore del Sayonara. Senza scampo le altre quattro persone investite dalla pioggia di proiettili. Difficile l’identificazione. Muoiono quasi all’ istante Mario Guarracino, 45 anni; Salvatore Benaglia soprannominato o Bill di 53; Gaetano Di Nocera, 52 anni cassintegrato dello stabilimento siderurgico Italsider di Bagnoli; Gaetano De Cicco, 38 anni, dipendente del Comune di Napoli: non è stato facile identificarlo in quanto aveva la faccia spappolata dai colpi ed era senza documenti.
Le famiglie delle vittime innocenti hanno dovuto attendere 27 anni per ottenere giustizia. Questa è l’altra paradossale faccia della realtà che, insieme alla camorra, concorre a svilire il senso della legalità, della giustizia, della vita.