Era il 1956, quando Renato Carosone e Nicola Salerno (in arte Nisa), scrissero questa canzone. L’enorme successo che ebbero è la migliore testimonianza dell’impatto che ebbe l’arrivo degli americani sulla cultura e le abitudini di vita degli italiani e in particolare dei napoletani.
Subito dopo le Quattro Giornate iniziò per Napoli l’occupazione delle truppe alleate, che ne gestirono la vita oltre la fine della guerra. La loro presenza divise l’opinione pubblica che in parte li accolse con entusiasmo, vedendoli come i garanti della loro stessa incolumità, ma dall’altra rifiutò di considerarli dei liberatori a causa dei terribili bombardamenti con i quali avevano distrutto la città. Comunque la vita cambiò velocemente per tutti, sia nel bene che nel male, così come emblematicamente il pane scuro della guerra divenne il pane bianco degli americani.
Napoli veniva da venti anni di fascismo che col beneplacito della monarchia aveva imposto un modello di vita patriarcale e imperialista, basato sull’agricoltura, i figli come braccia per il lavoro, le donne com e madri e mogli, l’obbedienza cieca al volere del Duce, il concetto di Patria e dello ‘spazio vitale’, le guerre di conquista. Venti anni di dittatura e una guerra disastrosa, avevano ridotto i napoletani alla disperazione.
Laceri e affamati, a volte scalzi, spesso senza più una casa, si trovarono davanti un esercito fatto di giovani alti e ben vestiti, che non avevano mai sofferto la fame, ma erano anzi sempre forniti di generi di conforto che loro non vedevano da anni o non avevano ancora conosciuto, come il chewing-gum, la Coca Cola o le sigarette ‘americane’ col filtro. In America c’era la televisione, a Napoli qualcuno aveva la radio, loro avevano le cucine a gas, da noi si usava ancora il carbone, loro avevano le lavatrici e le nostre mamme o nonne lavavano a mano, con il sapone di piazza e la lisciva. Loro fumavano le sigarette col filtro e ne buttavano quasi la metà, e i napoletani poveri se le preparavano con la carta di giornale. Loro avevano auto come transatlantici, noi andavamo per lo più a piedi o con la lambretta, curando di infilarci un giornale sul petto, per non prendere vento. In poche parole: loro erano ricchi e noi poveri. Per i napoletani, e non solo per quelli giovani, fu una vera ubriacatura scoprire che esisteva un mondo così diverso dal loro. E cercarono di imitarli.
Nel 1956 Renato Carosone fu invitato a Milano ad un concorso radiofonico organizzato da Mariano Ripetti (padre di Mogol), per conto della Ricordi. Il concorso era per ‘coppie’ e Carosone fu abbinato a Nicola Salerno che come paroliere si firmava Niso. Egli aveva preparato tre diversi testi per canzoni. Carosone si mise al pianoforte e in circa un quarto d’ora creò la musica di ”Tu vuò fa l’americano”, un boogie-woogie nato dalla fusione di swing e jazz.
Nella canzone si dipinge un giovane che cerca in ogni modo di sembrare un americano, sia nell’abbigliamento che nei gesti e il linguaggio. Indossa un pantalone con lo stemma della fabbrica, probabilmente un jeans, che all’epoca si andavano a comprare a Resina, dove venivano dirottate le balle di vestiti che arrivavano come aiuti di guerra dall’America. Anche il berretto con la visiera alzata era nello stile americano. Il giovane cerca di imitare i suoi idoli anche nel modo di camminare per via Toledo, cercando di farsi notare da chi incrocia. Anche se non gli piace, beve whisky and soda, balla il rock and roll, gioca a baseball e fuma Camel. Ma tutto questo lo fa solo con i soldi della madre. La sua infatuazione lo porta al punto di usare l’inglese per dire alla sua ragazza di amarla.
Gli diranno gli autori :
Comme te po’ capì chi te vò bene
si tu le parle ‘mmiezzo americano?
Quando se fa l ‘ammore sotto ‘a luna
come te vene ‘capa e di:”I love you!?”