Ritornava dal carcere di Caserta, dov’è detenuto suo figlio, era stata a colloquio da lui, la Passillona, alias Nunzia D’Amico, quella mattina del 10 ottobre, inconsapevole del fatto che proprio quell’atto d’amore materno verso un figlio che non vedeva da mesi avrebbe sancito la sua condanna a morte.
La soffiata deve essere partita da lì, da quegli irti palazzoni del Rione Conocal che da tempo immemore rappresentano la roccaforte del clan D’Amico, quel clan al capo del quale si era ritrovata proprio Nunzia, dopo il blitz che lo scorso marzo ridimensionò notevolmente l’organizzazione criminale.
Quella mattina, si è presentata un’occasione da non perdere per il clan rivale: la Passillona era uscita di casa e da lì doveva ripassare. Per giunta, in maniera del tutto inconsapevole, la stessa Nunzia ha fornito un assist prezioso ai suoi killer.
Aveva sete, la passillona, ha chiesto un bicchiere d’acqua alla signora che abita nel piano interrato della palazzina in cui viveva, poi ha deciso di intrattenersi ancora lì su quel pianerottolo a fumare una sigaretta con altre persone sopraggiunte. Tra un tiro e l’altro, si consumavano le solite chiacchiere che s’intavolano al cospetto di una madre di ritorno da un colloquio in carcere, scalfite dalle prevedibili domande di prassi: “come sta?”, “che dice?” e all’improvviso sbuca lui: il sicario di Nunzia.
“Passillò”: la chiama per farla voltare, nel pieno rispetto del codice d’onore della camorra, secondo il quale, sparare alle spalle è da “infami”.
Ogni minimo dettaglio lo sancisce: Nunzia D’Amico è stata giustiziata come un vero boss.
La donna non fa in tempo a girarsi che viene subito raggiunta dal primo colpo. Scappa Nunzia, prova a trovare riparo dietro un’auto e mentre si dà alla fuga urla contro il suo killer, intimandogli di togliersi il passamontagna: “Fatti vedere, fatti vedere in faccia”. Urla a più riprese, Nunzia, mentre corre intorno a quell’auto, prima d’essere raggiunta da quella mitragliata di colpi che proprio non poteva lasciarle scampo.
Fino alla fine, Nunzia ha comandato. Ha letteralmente speso fino all’ultimo respiro per impartire ordini. Anche al suo messaggero di morte, perfino a lui.
Una morte che ha sconcertato e segnato profondamente la famiglia D’Amico, soprattutto per la brutalità che ha contraddistinto l’esecuzione. Gli uomini del clan, il figlio, i fratelli, i fedelissimi al “clan di Fraulella” attualmente detenuti in carcere hanno accolto la notizia scatenando reazioni violente e concitate, rendendo necessario il ricovero in infermeria. Sedati, monitorati, tenuti sotto osservazione per lunghe e doloranti ore. Forse anche per evitare comunicazioni di prassi tra gli uomini del clan, volte ad organizzare la controffensiva.
Difatti, tutti si aspettavano che le ore immediatamente successive all’agguato costato la vita alla “Donna Imma Savastano” della “camorra vera”, fossero destinate ad animarsi di sangue, spari, regolamenti di conti. In sintesi, tuti auspicavano che a Ponticelli si sarebbe consumata l’ennesima e sanguinaria faida.
In primis, lo ipotizzavano le forze dell’ordine e le indagini contro il clan De Micco, le pattuglie e i posti di blocco che pullulano tra le strade del quartiere, lo comprovano.
Eppure, tutto tace. E non perché i D’amico abbiano deciso di cedere il passo al clan di Bodo.
La vendetta del clan D’Amico non si sta decidendo tra i bunker del rione Conocal piuttosto che tra le strade del quartiere Ponticelli, ma nelle carceri e il suo stesso esito verrà decretato nelle aule di tribunale.
Difatti, non pochi sono gli escamotage applicati dagli uomini di camorra per evitare le condanne all’ergastolo, attraverso espedienti e strategie processuali formalmente corrette. Negli ultimi anni, sono in tanti ad ammettere le proprie colpe, senza però prendere le distanze dal clan d’appartenenza, quindi, senza offrire alcun contributo in merito ad altri filoni investigativi. I camorristi si pentono senza vestire gli abiti degli infami, in pratica.
Una strategia che raggira la minaccia del carcere a vita, unitamente a quella di scontare pene che non si accumulano, ma che così facendo, si assorbono.
Questo è quanto accaduto ad un killer di Ponticelli, che – stando a un’indagine conoscitiva della Dda di Napoli – è stato capace di trasformare cinque ergastoli in cinque condanne a trent’anni che, in fase di esecuzione, vengono scontate «in continuazione». Tradotto: il boss passerà non più di venti anni in cella. Senza tralasciare, poi, i benefit aggiuntivi assicurati dalla buona condotta e i mille altri artifici che gli abili avvocati assoldati dalla camorra sono in grado di garantire.