La figura femminile all’interno delle organizzazioni criminali ha sempre assunto un ruolo controverso. Negli ultimi anni, a riprova dell’emancipazione della categoria, anche all’interno dei clan le donne sono andate incontro ad una sensibile “scalata al potere” assumendo un ruolo sempre più preponderante.
La camorra ha imparato a “sfruttare” a proprio favore quella tacita ed apparente ingenuità mista a mitezza che in maniera indotta si attribuisce al gentil sesso.
Donna Rosaria nel celeberrimo film “Il Camorrista” e Donna Imma in “Gomorra-La Serie” personificano due stereotipi estrapolati dalla realtà che ben incarnano il cruciale ruolo di potere che sovente viene detenuto dalle donne del clan.
La cronaca contemporanea, attraverso le intercettazioni emerse e gli arresti maturati negli ultimi giorni, in maniera ancor più perentoria, lo ribadisce.
Emilia Sibillo – omonima del clan dei baby-camorristi – moglie di Giuseppe Buonerba, in un caldo pomeriggio d’estate, incassa una soffiata e “comanda l’omicidio”. Questo è quanto emerge dalle intercettazioni.
Riprendendo proprio una frase del film “Il Camorrista”, la donna esclama: «Questa occasione ce la manda il Padreterno, guagliù…»
Lo ripete per ben cinque volte: «Ce la manda il Padreterno questa occasione»: così viene decretato l’omicidio di Salvatore D’Aquino, divenuto “celebre” anche per effetto della divulgazione del video che ne narra la cruda e fredda sequenza: «Dicono che ha una maglietta rosa, il brillante, si è messo la maglietta rosa… Non cominciate a fare bordello, – asserisce la donna rivolgendosi ai due esecutori materiali dell’omicidio – avete sentito? Ci sta una capa lucida lucida, lì in quella pizzeria, una capa ”brillante”… fate una cosa veloce, ià».
Salvatore viene indicato con il nomignolo di “brillante” per effetto della sua capigliatura.
È inevitabile, però, chiedersi cosa sarebbe accaduto se nei pressi di quella stessa pizzeria, in quegli stessi attimi, si fosse trovato un altro “brillante” che esibiva una maglietta rosa.
Donne che nelle borse griffate, tra un rossetto e uno specchietto, nascondono “il ferro”. Donne che spacciano droga, riciclano denaro, commissionano omicidi.
Donne completamente compenetrate nell’ideologia camorristica e pronte ad assumere gli sfrontati abiti delle “soldatesse del sistema” a vario titolo.
L’appartenenza e la fedeltà al sistema si manifesta anche attraverso azioni apparentemente avulse dalle dinamiche che direttamente incordano le sanguinarie e loschi trame della camorra, ma che palesano una complice e parimenti condannabile condotta.
Fornire ospitalità, alloggio, protezione e copertura a un latitante in fuga vuol dire strizzare l’occhio alla camorra.
Linciare le forze dell’ordine mentre mettono a segno un arresto vuol dire parteggiare per la camorra.
Sapere, ascoltare e vedere e non denunciare, dietro il comprensibile, ma non giustificabile alibi della paura, vuol dire concorrere a tendere una mano al sistema criminale, a discapito della giustizia.
Questo, però, quelle donne, nate, vissute, strutturate ed ideate per muoversi ed interagire in quel tessuto sociale, ancorato su regole dettate dal codice d’onore, non lo capiscono, non sono in condizione di comprenderlo, perché ignorano quello che vive oltre quello spesso muro di impenetrabile ferocia che custodisce “l’impero del male”. A quelle donne hanno insegnato che quello è il male e che la camorra è cosa giusta.
A conti fatti, il nemico più ostico da battere non è quel boss piuttosto che quel clan, ma un’ideologia.
Poi ci sono “le altre donne”, quelle che incontrano l’uomo sbagliato e senza sapere come né perché pagano a caro, carissimo prezzo quell’inconsapevole errore.
Gelsomina Verde, in tal senso, rappresenta l’esempio più lampante e tristemente eloquente.
La storia di Roberto De Bernardo – emersa da alcune intercettazioni – con una ragazza che, ignara della realtà che regna nella vita di quell’uomo, gli chiede insistentemente di vederlo, fornisce uno stralcio crudo e surreale dell’amore in relazione alla faida in corso.
Si lamenta la giovane, ignara della scia di sangue e polvere da sparo che scolpisce la vita del suo fidanzato. Agli occhi di quella ingenua ed innamorata donna risulta incomprensibile il motivo per il quale non riescono ad organizzare un incontro, neanche per pochi minuti, anche sotto casa di lui. A lei va bene tutto, lei si accontenta di tutto, anche di pochi attimi. Giusto il tempo di scambiarsi qualche bacio fugace e perdersi in un abbraccio liberatorio che esorcizzi la paura di perderlo, solidificando il sentimento che li lega.
Ma lui non abita in una strada qualunque. Lui vive in via Oronzio Costa, in quella stessa strada ribattezzata “via della morte”.
«Ci sta il sangue a terra, non mi posso neanche affacciare». La ragazza non capisce, non riesce a trovare un senso a quelle esternazioni e, allora, Roberto, incalza: «Ma li leggi i giornali? Fai una cosa, vai in internet e clicca via Oronzio Costa, così capisci anche tu. Basta un secondo che mi affaccio e rischio di prendere una botta dietro la schiena: Leggiti le interviste, vedi i palazzi, lo vedi l’omicidio Sibillo? Ecco, questo è il posto dove sei venuta tu l’altra volta, ci stanno troppe tarantelle, hai capito perché non posso? Hai capito perché non scendo e non mi affaccio neanche?».
L’intreccio di queste frasi con gli esami della scientifica, sta rendendo possibile la ricostruzione di alcuni episodi di cronaca che hanno scandito la faida degli ultimi mesi.
Il chiarimento fornito da Roberto alla sua fidanzata viene usato nel decreto di fermo della Dda, messo a segno pochi giorni fa, per dimostrare la coerenza di alcune acquisizioni investigative.
A dispetto del potere detenuto dalle “donne della camorra”, anche e soprattutto per merito della forza dell’amore di una donna estranea al clan, si sta facendo luce sulle dinamiche alla base della faida di camorra che da mesi troneggia sul centro storico.