La Méhari marca Citroen è l’auto sulla quale Giancarlo Siani è stato brutalmente ucciso, il 23 settembre 1985, a Napoli. Giancarlo era un “giornalista-giornalista.”
La Méhari è tributo di sangue per la libertà. Non c’è più lo spazio/tempo ci sono i gesti, le azioni, l’impegno. Diventano alimento di democrazia.
La Méhari è corpo e cuore. Accende emozioni, ricordi e suscita passione civile.
La Méhari è un’auto spoglia. Scoperta, senza sportelli né tetto, suggerisce fisicamente l’enormità dello scontro sostenuto, forse nell’inconsapevolezza, da quel giovane giornalista 25enne che sfidò nella sua determinata inconsapevolezza a petto nudo i clan, svelandone i segreti, raccontandoli dal di dentro, esortando e sollecitando con i suoi articoli e parole la conoscenza nella coscienza della gente. L’auto di Giancarlo è simbolo di verità e racchiude in una sintesi perfetta il sacrificio quotidiano di donne e uomini nella difesa della legalità, affrontando i rischi a viso aperto, senza scudi protettivi e pagando, a volte, un prezzo altissimo.
E stamattina, dopo 30 anni d’assenza, la Mehari di Giancarlo è tornata a sfilare tra le strade di Torre Annunziata, ma, stavolta, non è sola. È seguita ed affiancata da un nutrito corteo: ragazzi di ieri, uomini di oggi, ragazzi di oggi, uomini del domani hanno aderito ad un’autentica festa di legalità e lotta alla camorra.
Un simbolo eloquente attraverso il quale il bisogno di ispirarsi a figure legalmente, idealmente e moralmente integre rivive e si ripropone la sua immutata impellenza di trovare applicazione nel tessuto sociale, a prescindere dalle epiche storiche, con costante ed assidua incidenza.
Giancarlo Siani è l’icona che traina “il viaggio all’interno del viaggio” compiuto dalla sua auto, quello che introduce la volontà, l’impegno di restituire, risarcire, riconnettere le storie di resistenza civile delle nostre città, delle nostre regioni, dei nostri territori martoriati e offesi per portare “fuori” i sedimenti che trovano proprio nella vicenda tragica del cronista napoletano una sintesi, un coagulo, un monito, una potenza evocativa e narrativa. Questo è un linguaggio universale fatto soprattutto di gesti e simboli contro il sopruso e la barbarie: è una testimonianza che vive.
Il motore della Méhari si riaccende. L’auto di Giancarlo riparte da dove la mano assassina il 23 settembre del 1985 l’aveva tragicamente fermata. Non si tratta dell’ennesima celebrazione napolicentrica oppure l’occasione per chi dell’anticamorra ne ha fatta una professione.
È il giorno in cui tra le vie dell’ordinaria quotidianità sfilano le storie, a volte dimenticate, di giornalisti, fotoreporter, operatori dell’informazione, donne e uomini della società civile valorosi e impegnati uccisi con la violenza arrogante di chi sta dalla parte del male tragicamente, le tante vittime innocenti in Italia e nel mondo.
La Méhari dal colore verde fosforescente è evidenziatore delle storie, piedistallo sul quale collocarle per darne visibilità e fare memorie.
In Italia negli ultimi 50 anni sono stati uccisi 26 tra giornalisti e operatori dell’informazione.
Senza tralasciare le migliaia di vittime innocenti di mafie, terrorismo e criminalità con il caso emblematico della Campania che ne conta oltre 300. Un’ecatombe di proporzioni impressionanti. La storia che si ripete è sempre la stessa: trovarsi maledettamente nel posto sbagliato al momento sbagliato. Un teorema applicabile a quasi tutte quelle morti, tranne che a quella di Giancarlo e di “quelli come lui”: quelli che nascono con il destino segnato, per amore della lealtà, per amore di un ideale.