La vernice rossa deturpa il basamento in granito della statua di Giuseppe Garibaldi che sorge nel versante occidentale della piazza. L’apparente casualità della pittura rievoca una tela bianca segnata da una serie di pennellate irregolari, quasi ricercate come da un pittore espressionista.
Per questo motivo alcuni attribuiscono all’opera vandalica qualcosa di più profondo, quasi artistico. Forse dipende dalla voluta scelta del rosso, come a rappresentare il sangue versato dai meridionali durante l’Unità d’Italia che macchia indelebilmente la storia del “bel paese” e che vede in Garibaldi uno dei suoi simboli.
Lassù, il gigante di metallo si gode lo spettacolo che si consuma tutte le notti nella piazza che porta il suo nome.
Una piazza che passa da una caos esasperante del giorno ad un’apparente calma notturna, tetra e fumosa, che sembra farla saltar fuori da un romanzo di James Ellory.
A far da cornice alla piazza, una serie di palazzi in stile neoclassico e liberty che fanno a cazzotti con l’estrosità della tettoia della stazione della metropolitana, i cui lavori non sono ancora completati. Terminata da molto è invece quella delle Ferrovie dello Stato che luminosa sorge all’estremità opposta della piazza, proprio di fronte al monumento al patriota che sembra essere stato messo lì apposta per salutare chi arriva e chi parte. Proprio ai piedi della statua, un gruppo di tassisti in attesa di chiamata si rilassa attorno ad una delle tante macchine bianche in sosta. Uno di questi tira su dal naso, sfregandosi con i polpastrelli le narici irritate. Stanno commentando le forme di una ragazza che sta in piedi dall’altra parte della strada. È una giovane dalla pelle chiara. Indossa degli attillati pantaloni fucsia e una sottile canottierina gialla. Le orecchie, che nasconde dietro una folta chioma bionda, sono appesantite da due vistosi cerchi di metallo. Se ne sta ferma, in silenzio, con le mani in tasca come ad aspettare qualcuno. In effetti qualcuno arriva. È un uomo in macchina che si ferma proprio davanti alla ragazza. Lei, perfettamente a suo agio, si avvicina al finestrino del passeggero e si affaccia nell’abitacolo. Rimangono qualche attimo così, a parlare, fin quando lei non sale e l’auto non si rimette in moto. Nel farlo quasi investono un ragazzo mulatto che proprio in quel momento stava attraversando la strada. Il giovane, neanche trentenne, porta sulla spalla destra un enorme sacco bianco che sembra sostenere a fatica. Si volta per mandare al diavolo l’automobilista che quando ha smesso di apostrofare ha già voltato l’angolo. Col sacco in spalla riprende quindi la sua marcia, finendo di attraversare la strada, oltrepassando il gruppo di tassisti e poi un cinema a luci rosse. Si dirige con andatura moderata verso le luci che provengono da Porta Capuana. Accelera il passo solo quando, impaurito, si trova a costeggiare un gruppo di ragazzini che sembra schernirlo. Sono quattro e sono in sella a due motorini in sosta. Fumano qualcosa, sorseggiando birra e schiamazzano nonostante l’ora tarda e una volante della polizia che si aggira pigramente a poca distanza da loro. Tutto li esalta, persino un barbuto uomo malconcio che barcollando li supera puntando il centro della piazza. È disorientato, ed ogni passo è come una conquista. Si becca gli sfottò dei teppistelli che continuano a ferirlo con parole e risatine, fino a colpirlo con un pacchetto di sigarette vuoto. L’uomo attraversa lentamente la strada, rischiando di essere investito un paio di volte. Alla fine di quella che sembra una camminata nel deserto, si adagia sfinito ai piedi della base del monumento a Garibaldi e si addormenta. Non si cura di alcuni senegalesi (forse nigeriani, ma poco importa) che seduti scalzi sullo stesso piano di marmo dove l’ubriaco riposa, osservano raccolti in contemplazione la luna, forse per sentirsi più vicini a casa, come se collegati da qualcosa che è sempre uguale da qualsiasi punto la si osservi.
Qualcosa di universale. Come il fatto che la presenza della stazione in una piazza o lungo un corso debba rendere quel posto una sorta di crocevia di persone e di culture differenti. Un “melting-pot” fra bene e male che consegnato all’incuria e alla notte spesso finisce per mostrare il suo lato più triste, quello che accomuna ogni grande città.
Siamo a Napoli ma, appunto, guardandoci attorno con gli occhi della statua di Garibaldi, ci accorgiamo che potremmo trovarci in qualsiasi capitale del mondo. È forse in luoghi come questi che Napoli sfonda i paletti della tradizionale immagine che ha, quella di splendida ma difficile città i cui problemi sembrano ridursi a quello (gigantesco) della Camorra e a quello del furto dell’orologio.
È qui che Napoli si mostra veramente metropoli confessandone tutto il suo disagio. È qui che il sole tramonta e la città diventa noir.