Roxana è una ragazza rom, una delle tante abituate a destreggiarsi tra le baracche, i bidoni dai quali grondano perennemente sacchetti pregni di rifiuti, gli occhi, ancor più pregni di diffidenza delle persone che incontra e che nei suoi 14 anni rilevano un destino già segnato, quello che conferisce alla sua sagoma il severo aspetto del pericolo da schivare.
Quando è giunta a Napoli, Roxana aveva appena 11 anni. Suo padre l’ha venduta ad un uomo che da allora tiene in ostaggio la sua vita. Dopo le prime mestruazioni, quando secondo l’ideologia Rom sei una donna pronta per procreare nuove reclute utili ad infoltire il villaggio concorrendo, in vario modo, a rifocillarne ed incrementarne gli introiti, è stata costretta a subire il primo rapporto sessuale.
Il primo ad abusare di lei è stato il suo padrone, seguito a ruota da altri due uomini del villaggio. Nei giorni seguenti e per molti, molti altri giorni, quella razzia si è consumata quotidianamente. Ragazzi, uomini adulti, padri, fidanzati, mariti, anche italiani, hanno penetrato quel giovane e costernato corpo, versando nelle casse del suo padrone pochi euro.
A Roxana non è dato sapere il prezzo del suo corpo, non le è concesso fare domande, avanzare pretese, esternare pensieri, manifestare esigenze.
A Roxana non è concesso essere un’adolescente.
Ha trascorso infinite giornate relegata in una roulotte, logorandosi nell’attesa del prossimo cliente.
Impossibile per lei uscire da quel circolo vizioso a base di soprusi ed abusi.
Impossibile per lei uscire anche solo fisicamente da quel villaggio.
Ha provato due volte a percorrere la strada più estrema e definitiva, pur di uscire da quel tunnel cieco di buia costernazione. Una volta ha cercato di tagliarsi le vene con un coltello da cucina, ma anche con i polsi fasciati è stata costretta a prostituirsi. La seconda volta ha cercato di darsi fuoco, procurandosi diverse ustioni che hanno scalfito e deturpato il suo giovane corpo consegnandogli il supplizio imbastito nelle cicatrici. Eterne, definitive, incancellabili. Proprio come il suo dramma.
La fine di un supplizio, rimarcato da una sonora lezione a base di bastonate e cinghiate. Una lezione che Roxana non dimenticherà mai e che troneggia nella sua via come la più inquietante delle minacce, perché sa che quello è il destino al quale rischia di andare incontro, se non torna al villaggio prima che faccia buio, se non svolge alla perfezione i compiti che le vengono assegnati e soprattutto se cerca di fuggire.
Da quando il suo corpo è sfigurato dalle cicatrici è stata riversata in strada con l’obbligo di guadagnare il corrispettivo economico di quello che assicurava al suo padrone prostituendosi.
Perché non si ribella alla ferocia di quel destino, Roxana? Perché non cerca di allontanarsi da quell’inferno? Perché le cicatrici che deturpano quel corpo sono più alienanti delle pieghe della peste. Capaci di evocare quel genere di compassione che si seda allungando qualche spicciolo nel pezzo di cartone che stringe tra le mani, ma null’altro, nulla di più. Roxana è una figura da schivare, una delle tante vittime di un pregiudizio, radicato, invalicabile e che decreta la sua condanna a morto. Roxana se che da sola non riuscirebbe a sopravvivere, figuriamoci a vivere.
Potrebbe perfino togliersi la vita e nessuno noterebbe la sua assenza. Questa è la consapevolezza che più di ogni altra le ha già irrecuperabilmente segnato la vita, decretando la sua morte inteiore.