“Ho 21 anni, ho sempre fumato uno spinello, di tanto in tanto. Negli ultimi tempi, però, era diventata un’abitudine più invasiva. Il consumo di droghe leggere è diventato abituale durante la separazione dei miei genitori. Si, lo so, non è una giustificazione, ma è proprio così che è andata.”
A raccontare la sua storia è uno studente universitario, iscritto al terzo anno della facoltà d’ingegneria informatica. Un autentico “cervellone” indebolito dalle vicissitudini della vita e che ha rischiato di compromettere il suo percorso umano ed universitario, proprio perché lungo quel cammino ha incontrato l’amnè.
“Non l’ho mai acquistata direttamente dai pusher, fifone come sono, non avrei mai avuto il coraggio di farlo. Erano i miei amici d’università a procurarla. Dei ragazzi di Foggia che vivono in un appartamento in affitto a Fuorigrotta, a due passi dall’università, a due passi dal Rione Traiano. Mi riferivano che era lì che andavano a comprare il fumo, tra ragazzi si vociferava che in quella zona si vende “la roba migliore in circolazione a Napoli”.
All’inizio erano solo un paio di tiri a testa, giusto per stemperare l’ansia del pre-esame. Poi, le cose mi sono letteralmente sfuggite di mano. Per sottrarmi alle battle di insulti ed accuse che rappresentava il fulcro intorno al quale ruotavano le giornate dei miei genitori, mi sono praticamente trasferito a casa dei miei amici d’università. A volte, non tornavo a casa dei miei neanche per dormire.
Gli spinelli erano una parte integrante delle nostre giornate e ben presto la mia personalità è cambiata. Attribuivo “il merito” di quel cambiamento alla situazione familiare che vivevo, ma, oggi, so per certo che il tutto è scaturito da ben altro.
Un giorno, mentre ero alla guida della mia auto e percorrevo via Terracina per raggiungere Bagnoli, vidi un cane enorme sfrecciarmi davanti all’auto e d’istinto inchiodai l’auto frenando bruscamente. Provocai un tamponamento a catena che coinvolse quattro auto, nessuno si ferì gravemente, ma tutti gli altri conducenti inveirono pesantemente contro di me, chiedendomi il perché di quella brusca frenata. La mia risposta inasprì ancora di più i toni. Tutti sostenevano di non aver visto nessun cane e che dì lì, di sicuro, non era passato nessun cane. La situazione si fece concitata, parlavano di chiamare la polizia o i carabinieri e io ero consapevole di aver fumato due spinelli prima di uscire ed avevo dell’erba nel taschino della camicia. Così mi rimisi in auto e mi dileguai nel nulla, approfittando del marasma generale.
Ci ho ripensato tante volte a quel cane, mi è riapparso davanti agli occhi, come in un flashback, tante altre volte. Sapevo di averlo visto, ne ero convito, era reale ed era anche voluminoso, se non avessi frenato, lo avrei ucciso.
Tuttavia, non fu questa la circostanza nella quale giunsi al punto di non ritorno: una sera, di ritorno da una notte trascorsa in discoteca, mi vidi costretto a tornare a dormire a casa dei miei, perché i miei colleghi d’università ospitavano degli amici foggiani. Avevamo bevuto e fumato un bel po’. Mi reggevo a stento in piedi, barcollavo vistosamente. Quando giunsi nella mia stanza, mentre cercavo di sfilarmi la t-shirt, ero costretto continuamente a grattarmi, come se fossi punzecchiato da insetti. Prima in misura lieve, poi in forma più insistente.
Ho iniziato a grattarmi in maniera ossessiva, psicotica, come se fossi posseduto e sopraffatto da uno sciame d’insetti. Contro le pareti, contro l’armadio, mi sfregavo contro superfici ruvide, eppure quella sensazione non passava. Ho ricordi più che nitidi di quei momenti. Mia madre, allarmata dai rumori, entrò in camera ed iniziò ad urlare, sconvolta, spaventata, cercava di fermarmi, voleva capire cosa mi stesse accadendo. Pensava che avessi le convulsioni, mentre io continuavo a ripeterle: “Aiutami, aiutami!” Avevo sfregato con violenza tale la pelle da provocarmi abrasioni così profonde da comportare la fuoriuscita di sangue. Allora, mia madre, quando capì cosa stava accadendo, mi afferrò per le spalle e in un mare di lacrime mi pregava di fermarmi e tranquillizzarmi.
Mi portò in ospedale, dove fui medicato e costretto a convivere con delle vistose fasciature per diversi giorni. Fu lì, in ospedale, che ho incontrato la persona che mi ha salvato: una psicologa, giovane e cortese, alla quale raccontai tutto. Più le parlavo e più mi sentivo come se mi stessi liberando di un peso. Fu lei a spiegarmi che quelle continue apparizioni di animali erano merito della zoopsia: un’allucinazione generata anche e soprattutto dall’uso di sostanze stupefacenti.
Non lo so se era l’amnè, i miei amici e la psicologa che tuttora mi segue, sono sicuri di si, so solo che se fossi stato solo, quella notte in camera mia, avrei potuto uccidermi con le mie stesse mani, senza volerlo, ma convinto di fare “la cosa giusta”.