Il grande poeta Salvatore Di Giacomo, è stato l’autore delle più amate e famose canzoni napoletane.
Palomma ‘e notte, tra le tante, è quella dove possiamo carpire l’intima essenza del poeta stesso, i suoi sentimenti e la sua struggente sofferenza, per quello che è stato, il vero amore della sua vita.
Scritta nel 1906, fu musicata da Francesco Buongiovanni.
Essa fa riferimento ad una farfalla che continua a rigirare intorno ad una candela accesa.
Tiene mente ‘sta palomma,
comme gira, comm’avota,
comme torna n’ata vota
sta ceròggena a tentá!
Palummè’ chist’è nu lume,
nun è rosa o giesummino…
e tu, a forza, ccá vicino
te vuó’ mettere a vulá!…
Il poeta l’ avverte del pericolo: quella che la farfalla insegue non è una rosa e nemmeno un gelsomino, ma una fiamma che può bruciare le sue tenere ali.
Vatténn”a lloco!
Vatténne, pazzarella!
va’, palummella e torna,
e torna a st’aria
accussí fresca e bella!…
‘O bbi’ ca i’ pure
mm’abbaglio chianu chiano,
e che mm’abbrucio ‘a mano
pe’ te ne vulé cacciá?…
Va’ via, torna all’aria fresca, non vedi che anche io resto abbagliato dalla fiamma e per allontanarti mi brucio?
Una chiara allusione alla travagliata storia d’amore tra Elisa Avigliano, la farfalla, e il poeta stesso, Salvatore, colui che vorrebbe allontanarla ma si brucia la mano.
Lo scrittore napoletano Raffaele La Capria, così ci narra la loro storia:
“Quando si conobbero (nel 1905) Salvatore ed Elisa, lui era un uomo di quarantacinque anni, lei una ragazza di 26. Salvatore era un bell’uomo, un vero napoletano dagli occhi sognanti, un poeta già celebre, riconosciuto, i suoi versi erano cantati dovunque e tutto questo creava intorno alla sua persona un’aura romantica, un fascino che poteva fare innamorare qualsiasi ragazza, soprattutto una ragazza come Elisa.
Elisa era ‘na giovane vestuta / cu ‘na vesta granata, auta e brunetta.
Studiava per diventare insegnante e ancor più per essere indipendente, per emanciparsi dalla protezione familiare, cosa poco comune a Napoli in quel tempo. Ardita ed emancipata doveva essere davvero se, dopo qualche incontro con Salvatore Di Giacomo alla Biblioteca Nazionale Lucchesi Palli – da lui diretta – gli scrisse una lettera talmente intraprendente per una ragazza di quell’ambiente e di quell’educazione, da lasciare stupiti: “Mio buono e caro signor Di Giacomo… se non fossimo stati in mezzo alla gente ve lo avrei detto ieri stesso quanto sto per dirvi ora. Io vi amo: ecco la verità e lo so e lo sapevo da un pezzo, e non volevo confessarlo né a voi né a me. Io vi amo, e ora ve lo dico così com’è. È bene, è male dirvelo? Che cosa ne penserete? Io non so… Sappiatela tutt’intera questa verità, sappiatela così rudemente, così bruscamente com’è sempre l’ impeto dell’ anima mia: sappiatela e fate quel che volete...”.
L’unione fu costellata da molti litigi ed incomprensioni, soprattutto causate dall’amorosa ma invadente presenza di “mammà” – figura emblematica nell’universo affettivo meridionale – con la quale Salvatore, figlio unico, aveva continuato a convivere.
In realtà quello che sembrava un uomo maturo, si rivelava nei fatti una persona fragile e vulnerabile.
I due innamorati convolavano a nozze dopo ben undici anni di fidanzamento, ma nonostante tutto rimasero uniti fino alla fine.
Elisa assistette amorevolmente il poeta nel corso della lunga malattia (probabilmente la gotta) che lo aveva ridotto all’immobilità.
Alla morte del poeta, Elisa, impazzita dal dolore, distruggeva le lettere inviatele da Salvatore, dimenticandone alcune in un cassetto – quelle che vanno dal luglio del 1906 al dicembre del 1911.
Ritrovate per caso a Porta Portese, esse ci hanno permesso di ricostruire la storia di questo ambivalente amore”.
Con l’arrivo della grande guerra l’atmosfera cambia. Non è più tempo per certe canzoni e anche la vena del Di Giacomo svanisce, ma la sua produzione artistica, resta comunque la più fiorente del panorama musicale classico partenopeo.