Un mestiere antico di Napoli, tipicamente femminile, fu quello della Lavannara.
Con l’arrivo delle nuove tecnologie, questa caratteristica figura femminile, è completamente sparita, cedendo il passo alle più comode e pratiche lavatrici.
‘A lavannara, solitamente era una donna di umili origini, quasi sempre una contadina nobilitata da un lavoro che la porta in città di casa in casa a togliere o riconsegnare i panni.
La si distingue per la grande sporta o immenso fagotto di biancheria, sporca o candida, che trasporta. L’abito è solitamente di taglio contadino ma ricercato: corsaletto di seta rossa o celeste, giubbetto e gonna con colori a contrasto, grembiule bianco e ai piedi zoccoli guarniti di di nastri.
A dispetto della semplice apparenza, il lavoro della lavandaia è tutt’altro che banale, tanto che spesso queste sono organizzate alle dipendenze di una maestra, che potremmo definire come l’antesignana dell’imprenditrice.
La lavannara a capo del gruppo, ha il compito di dividere le varie raccolte di panni a seconda del genere di capo e delle necessità di trattamento e organizza il lavoro delle fanciulle sue subalterne, che paga a giornata o con un tanto per cento sull’utile. Alcune lavandaie giravano per i vicoli e sulle strade, con un asino, per alleggerirsi il carico in quei giorni in cui c’erano grandi moli di panni da prendere o consegnare.
La settimana di lavoro della lavandaia si articolava più o meno in questo modo:
Lunedì: con la sporta vuota al braccio o l’asino scarico, la lavandaia va a ritirare i panni sporchi presso i suoi avventori. Questi vengono conteggiati su libretti o tabelle di cartone affinché nulla vada smarrito.
Martedì: la lavandaia maestra divide i panni portatele dalle subalterne e li segna con un marchio tutto suo.
Alla sera i panni sono insaponati e messi in grandi vasi di terracotta o in un capace lavatoio, entrambi bucati sotto (da qui deriva il termine bucato con cui si indicano i panni da lavare). Sui panni si butta quindi dell’acqua bollente che filtra e sfoga dal foro sottostante generando una colata.
Mercoledì: i panni sono rinsaponati, lavati sfregandoli fin quasi alla macerazione su pietre di lastrico, quindi sciacquati con acqua pura per far perdere loro l’odore e i residui del sapone. Quindi vengono stesi ad asciugare sperando nel sole, o cantando per invogliarne i raggi a cadere.
Giovedì: i panni si finiscono di asciugare.
Venerdì: i panni sono piegati da stiratrici o soppressiere, raggruppati insieme per essere riconsegnati e quindi riportati alle rispettive case, dove cameriere o padrone sovraintendono il riscontro tra quanto è uscito sporco e quanto tornato pulito e provvedono a pagare la lavandaia.
Sabato: si fanno i conti degli introiti e vengono pagate le lavoratrici a giornata, dette giornaliste.
Domenica: è un giorno di festa che corona la settimana di lavoro della lavandaia, buono “per acconciarsi, azzimarsi, abbellirsi, mettere il meglio che si ha, andare alla messa a sentire le pubblicazioni, pranzare all’aria aperta, correre a spasso, ballar la tarantella ed aspettar la serenata.”
Tra le maestre, c’era, come accade in tutti i lavori, una vera e propria rivalità: i panni sporchi venivano lavati con cenere e sapone ed un metodo personale e segreto per sbiancare e smacchiare gli indumenti, metodo che ognuna riteneva migliore degli altri e custodiva gelosamente.
La Lavannara è una figura storica molto sentita dal popolo napoletano, al punto che Roberto de Simone, le diede un ruolo molto importante, nella sua trasposizione della Gatta Cenerentola di G. Basile.