Sono le 5,00 di mattina, l’aria è frizzante, le luci nelle case sono ancora spente, tutto tace e nei vicoli il silenzio è rotto solo dal leggero cigolio delle ruote di legno, che arrancano sulla pavimentazione di sanpietrini.
Un altro giorno è spuntato, un’altra lotta per la sopravvivenza, un’altra sfida da vincere per riuscire a racimolare poche lire.
Non sempre il materiale che si trova è adatto: se la sera prima ha piovuto, il cartone è troppo deteriorato, se i ratti hanno bivaccato usandolo come tana per stare al caldo, è troppo sporco , se nello stesso contenitore sono state buttate le “spaselle” del pesce, è peggio ancora.
Forse non tutti ricordano quell’uomo curvo, col viso segnato dal tempo e dalla fatica, che raccoglieva cartoni per le strade, che con cura meticolosa piegava e accatastava sul suo carretto; da quell’uomo, troppo spesso guardato con sufficienza e disprezzo, si potevano trarre lezioni di vita che la scuola non avrebbe mai insegnato.
Quell’uomo sporco e malandato, affetto da bronchite cronica dovuta all’umidità della notte, rappresentava il modello ideale di padre di famiglia, un esempio da seguire, un eroe senza armatura scintillante che col suo umile ma onesto lavoro, riusciva a sostenere e superare le difficoltà della vita, non facendo mancare mai il necessario ai suoi figli.
Il Cartonaro, è un mestiere scomparso da anni, i pochi rimasti non tirano più il carretto, si sono dovuti emancipare e adeguare, ma soprattutto non si chiamano più Cartonari, oggi vengono chiamati operatori della raccolta differenziata.
Gli ultimi, famigerati brandelli di gloria sono stati consegnati a questa figura ormai obsoleta dal film “Io speriamo che me la cavo”, nell’ambito della cui trama, uno dei leitmotiv portanti è proprio la storia di Gennarino Esposito, figlio di un cartonaro che, durante le ore di lezione, dorme tra i banchi di scuola per rifocillarsi dalle fatiche patite durante la notte, trascorsa al seguito del papà a raccattare cartoni lungo i vicoli della periferia partenopea.