Il 24 maggio 2015 si ricorda/celebra l’entrata nella ‟vittoriosa‟ Grande guerra del Regno d’Italia sabaudo. Una ricorrenza a metà fra la riflessione e l'(auto)celebrazione, ma è tutto oro ciò che luccica mediaticamente?
La Grande (insulsissima) Guerra, forse la più inutile fra le inutili guerre, fu combattuta, tra l’altro, contro nostri alleati, che ci avrebbero ceduto, in cambio della semplice neutralità, quello che con il massacro di una intera generazione ricevemmo come misera elemosina dalle “alleate” Inghilterra e Francia, vere tutrici/padrone dello stato sabaudo sin dalla sua recente nascita, che al tavolo della pace misero praticamente alla porta l’Italia, stato ‟vincitore‟, dopo averlo trascinato nel conflitto.
Un ingresso in una guerra sanguinosa reclamato al loro fianco dall’‟esterno” proprio dalle due potenze ‟liberali” e dall’interno da Fiat e Ansaldo-Breda per ‟sviluppare‟, con le commesse di guerra, quella industrializzazione solo-padana che la svolta protezionistica di 28 anni prima – che tanto male fece al Sud ed alla sua economia, come già altre sciagurate scelte politiche del nordcentrico Regno d’Italia – non riusciva a far decollare e per accontentare i complessi del reuccio savoiardo Vittorio Emanuele III con i suoi inadatti generali, in primis l’inadattissimo Cadorna, piemontese come i suoi sovrani.
Ma più delle bugie e dei falsi miti vorrei ricordare un episodio minore, ma forse significativo, della Grande Insulsissima Guerra, che qualcuno – non so se più ingenuo o più in mala fede degli altri – ha chiamato anche con il rodomontesco e ridicolo nome di “quarta guerra di indipendenza” (sic!): un soldato napoletano (guarda caso calabresi, campani ed ex ‟duosiciliani‟ in genere erano sempre utilizzati in prima linea – vedi le decimazioni della gloriosa Brigata Catanzaro sbattuta continuamente in prima linea) cominciò, durante la veglia notturna, a cantare canzoni della sua terra, nella sua lingua materna.
Dalla prima linea austriaca partì un lungo applauso con un 《 Ancora! 》, e il napoletano non si fece pregare. Quella notte non ci furono colpi fra le due linee.
Non credo sinceramente che il perseverare con una retorica ufficiale e spesso stantia sui miti fondanti del glorioso stato italiano, e che si innesta prepotente in tutti gli ambiti didattici dalle elementari all’università, serva a tenere unito un paese diviso proprio dalle sue colpe originarie. L’Italia è quel posto in cui – sin dalla sopravvalutata e sanguinosa esperienza dei comuni centro-settentrionali in preda all’anarchia e alle lotte di potere fra famiglie (qualcuno le ha definite ‟protomafiose”) di banchieri – non si è mai avuta la minima cavalleresca pietà per gli sconfitti. Poi qualcuno si stupisce che resti un paese completamente diviso, ma la colpa, ovviamente, la si dà solo agli sconfitti…