« A voglio bene… ‘a voglio bene assaje!
Dicitencello vuje ca nun mm”a scordo maje… »
Il primo luglio del 1930 due signori, amici nella vita e frequentatori entrambi dello storico caffè Gambrinus di Napoli, alla fine di una passeggiata che li portava da via Roma all’amato caffè, si incontrano e si siedono a terzo tavolino a sinistra, quello più vicino alla strada, verso il vertice del caffè che affaccia sulla storica piazza del Plebiscito.
Rodolfo Falvo e Enzo Fusco chiacchierano di tutto, dell’imminente compleanno di Falvo, che lui vorrebbe festeggiare a Portici da amici, del cambiamento che il fascismo sta portando al regno ed anche di donne.
Rodolfo Falvo dopo la morte prematura del padre è stato costretto ad impiegarsi presso l’ufficio delle Regie Poste, incarico che abbandona appena scopre la sua vera passione, la musica.
Enzo Fusco è impiegato alle ferrovie, un amministrativo poco incline agli schemi ed al tran tran quotidiano, ma è anche un poeta, scrive nei ritagli di tempo, quando il lavoro e la famiglia lo consentono.
Sono tutti e due poco più di trentenni ma vivono immersi in quel fiorire di grandi pensieri e passioni che la prima parte del secolo scorso ha portato a Napoli, insieme con il meglio della cultura europea, uno dei periodi più interessanti per la storia culturale contemporanea italiana.
Fusco però ha un argomento che non riesce a far emergere con la confidenza che è solita all’amico, oggi ha rivisto una donna, che chiameremo Maria Lisetta, di cui è profondamente innamorato, un amore vero e profondo che gli toglie il sonno, non lo fa vivere sereno, che cancella altri pensieri e gioie.
Lui però è sempre stato timido con le donne e con il suo carattere introverso e cupo, ha fatto solo errori nell’approccio con lei, fino a meritarsi finanche di essere allontanato con il disprezzo dello sguardo che le donne sanno ben dispensare.
Rodolfo Falvo intuisce quanto l’amico sta per dirgli, lui è di carattere aperto, gioviale, un gran sciupafemmine e poi sa scrivere canzoni che inventa per conquistare la bella di turno, ha perfino scritto una canzone pubblicitaria, ‘O liquore Mago, che in tanti canticchiano.
Il carattere introverso e timido che contraddistingue Fusco, non gli consente di esprimersi verbalmente come avrebbe voluto ma solo di tirare fuori dalla giacca un blocchetto di fogli di carta e iniziare a scrivere, ispirato anche dalla figura femminile che aspetta l’autobus alla fermata di fronte al caffè che è tanto somigliate alla sua amata.
Falvo lo guarda e come spesso accade, attende che l’amico termini la sua poesia, ne ha già scritte tante allo stesso modo, per leggere il componimento, anche questa volta fa il solito gesto di tirare via il foglio dalla matita di Fusco non appena sente il suo lungo sospiro che segna la fine dell’impegno.
Rodolfo Falvo legge e capisce di avere davanti agli occhi, nero su bianco, più di una poesia, è la disperata dichiarazione d’amore di un uomo nei confronti della donna amata, resa in maniera indiretta.
L’uomo infatti parla rivolgendosi ad un’amica dell’amata riferendosi alla donna desiderata con l’appellativo cumpagna vosta (vostra amica). L’uomo le chiede di riferirle che per lei ha perso il sonno e la fantasia (aggio perduto ‘o suonno e ‘a fantasia), che la passione “più forte di una catena” (è na passione, cchiù forte ‘e na catena) lo tormenta e non lo fa più vivere (ca mme turmenta ll’anema… e nun mme fa campá).
Soltanto nell’ultimo verso del brano il protagonista confessa di amare in realtà, la sua interlocutrice e quando vede una lacrima sul suo volto (“na lacrima lucente v’è caduta“) le dice che è proprio lei la donna che ama (“levammece sta maschera, dicimme ‘a verità“), togliamoci questa maschera, diciamo la verità.
Falvo di getto compone la musica e rivolta all’amico la canta tutta d’un fiato.
Ecco come è nata una delle canzoni napoletane più cantate e più appassionate delle canzoni d’amore mai scritte.
Curiosità
ch’è assaje cchiù bella ‘e ‘na jurnata ‘e sole… si candida come miglior verso della storia, presente nel linguaggio dedicato all’amore.
Non si deve fare l’errore di tradurre “assaje” con “molto”: molto è una quantità finita, mentre assaje è un tendere all’infinito, c’è dentro spazio per aggiungerne sempre di più.
Nel corso degli anni il brano è stato oggetto di innumerevoli versioni e reinterpretazioni. I primi autori ad inciderne una versione, già nel 1930 furono Vittorio Parisi e Gennaro Pasquariello. La canzone entrò anche nel repertorio di Roberto Murolo, che la registrò anche in duetto con Amália Rodrigues.
La canzone è stata tradotta in inglese (da Jimmy Dale, Martin Kalmanoff, Jack Val, Sam Ward) con il titolo “Just Say I Love Her” e interpretata negli anni da numerosi cantanti tra i quali Vic Damone, Eddie Fisher, Frankie Avalon, Al Martino, Dean Martin, Connie Francis, Artie Shaw, Tony Bennett, Timi Yuro, Nina Simone.
Negli anni settanta il brano ebbe una nuova ondata di popolarità in Italia, grazie ad una cover registrata da Alan Sorrenti nel 1974, che la reinterpretò in falsetto, in occasione dell’uscita del suo terzo album. Fra gli altri interpreti ad aver registrato una versione del brano si ricordano Renzo Arbore e l’Orchestra Italiana, Rita Forte, Ivana Spagna, Ricchi e Poveri, Sal Da Vinci, Ivan Graziani (in una versione strumentale nell’album Tato Tomaso’s Guitars), Mario Trevi (in versione classica, negli anni ’60, ed in versione Turbo folk nel 2011), Claudio Villa, Franco Califano, Mariella Nava, Alessandro Safina, Gigi Finizio e Lina Sastri.
Da non dimenticare le interpretazioni dei cantanti lirici come Giuseppe Di Stefano, Mario Del Monaco, Josè Carreras, Luciano Pavarotti, Placido Domingo, Francesco Anile. In Russia (dove la canzone classica napoletana è apprezzata e studiata nei conservatori sin dai primi del 1900) è un cavallo di battaglia di tenori come Muslim Magomaev, Dmitri Hvorostovsky e Zaur Tutov.
Nella celebre canzone di Lucio Dalla Caruso nel ritornello l’autore utilizza più che ampiamente, quasi un rimontaggio, musica e parole del ritornello di Dicitencello vuje (Ti voglio bene assai e È una catena ormai).
Gianna Nannini in Fotoromanza – uno dei suoi primi e più noti successi – cita (traducendolo in italiano) uno dei versi più caratteristici di Dicitencello vuje (“ho perduto il sonno e la fantasia”).