Mattia Fagnoni è un bimbo di Napoli affetto dalla sindrome di Sandhoff, una malattia genetica metabolica rara che affligge uno su 130000 neonati.
Una patologia nella quale l’assenza di un enzima, una singola proteina, determina un accumulo di lipidi nei tessuti dell’organismo tale da portare a morte il bambino entro i 4 anni di vita.
Il problema delle malattie genetiche rare è che, se già si investe poco sulla ricerca scientifica in generale, figuriamoci se i pochi fondi esistenti vengono destinati agli studi scientifici su questo tipo di patologie.
Un altro problema delle malattie rare per le quali non esiste una cura valida riconosciuta è doversi affidare alle terapie in fase di sperimentazione: in pratica affidare le uniche speranze di guarigione neanche ad un farmaco, ma ad un protocollo sperimentale e quindi alle liste di attesa e alle pratiche da firmare e alla burocrazia che rallenta il tutto.
E’ proprio questo il caso di Mattia che, per poter iniziare a curarsi con il “metodo stamina” del dottor Vannoni all’ospedale Civili di Brescia nell’agosto 2013, ha passato un vero e proprio calvario, oltre alla sofferenza legata ai sintomi della malattia che si aggrava ogni giorno che passa.
Paradossalmente, i bambini affetti dalle malattie genetiche rare e i loro genitori non solo devono sostenere una lotta contro il tempo – nella maggior parte dei casi si tratta di malattie degenerative non compatibili con la vita – ma devono scontrarsi con i tempi e le modalità di somministrazione di cure alle quali è difficile accedere.
La patologia metabolica di Mattia, per esempio, vede una speranza nella cura con le cellule staminali: si tratta di cellule prelevate dal midollo osseo di un donatore compatibile con il paziente, coltivate in vitro con una soluzione di acido retinoico e poi infuse nel paziente, dove si trasformerebbero in cellule del tessuto danneggiato, restituendogli nuova vita.
Il verbo al condizionale è d’obbligo visto che, ad oggi, non esistono dati scientifici sulla effettiva validità in termini di risultati a lungo termine sul cosiddetto metodo stamina.
Infatti, da più di dieci anni, nel mondo scientifico si assiste una diatriba continua tra medici che accusano presunti dottori (Vannoni è laureato in Scienze delle Comunicazioni) di illudere i pazienti con terapie senza validità scientifica.
Si aggiungono a queste accuse le sentenze dei tribunali che invitano i medici ad agire in scienza e coscienza e quindi ad applicare il metodo stamina se non esistono altre terapie possibili per salvare i pazienti da morte certa.
Ancora le accuse delle associazioni dei medici ai tribunali, invitati a legiferare in materie di loro competenza e a non decidere al posto dei dottori se un paziente potrà beneficiare o meno da un dato trattamento.
Se si allarga poi il discorso ai comitati etici che si occupano appunto di stabilire se sia etico o meno somministrare un trattamento come nel caso delle staminali delle quali non si conoscono gli effettivi benefici, figuriamoci gli effetti collaterali a breve e a lungo termine, il discorso si complica sempre di più.
A maggior ragione è da ammirare la forza di Francesco e Simona, i genitori di Mattia, che non si sono mai dati per vinti: hanno fondato una onlus con il nome del figlio che vuole essere di sostegno a tutte le famiglie che stanno vivendo la loro stessa esperienza e si sono battuti con ogni mezzo a loro disposizione per trovare una cura per salvare Mattia.
L’ultima iniziativa in ordine di tempo sarà istituire una lotteria di beneficenza che metterà in palio delle opere di street art alla Tattoo convention che si svolgerà a Napoli alla Mostra D’Oltremare tra il 22 e il 24 maggio.
Pensare che una onlus debba occuparsi di finanziare la ricerca sulle malattie rare mentre la comunità scientifica italiana e non solo pensa ad azzuffarsi, molto spesso su questioni di principio e non strettamente legate alla salute dei pazienti, resta ancora un’idea alla quale è difficile abituarsi.
L’unica ragione, ma sicuramente non una giustificazione plausibile a tutto questo è pensare che chi non ha un familiare con una patologia per la quale una cura certa non c’è, è non rendersi conto di quanto possa essere vitale la ricerca scientifica.