Stiamo respirando gli stessi attimi durante i quali, un anno fa, lungo le vie che conducono allo Stadio Olimpico di Roma, si consumava una delle vicende più sanguinose della storia del nostro Paese.
Perché, sia chiaro, quanto accaduto un anno fa prima della finale di Coppa Italia tra Napoli e Fiorentina, esula completamente dal discorso meramente calcistico.
Il calcio non è violenza.
E in qualsiasi ambito e contesto nel quale s’impugna una pistola per conferire voce alle proprie ideologie, convinzioni e deviazioni, a quella condotta, va attribuita sempre e solo un’unica ed univoca denominazione: criminalità.
Vale la pena di ricordare, di ricordarci che durante le ore che seguirono la tragedia e ancor più nei giorni successivi, la nostra città, il nostro status di “napoletani” e la nostra napoletanità sono stati ingiuriosamente e ripetutamente offesi, calunniati, infamati.
Fin da subito, i media nazionali hanno azionato la macchina del fango, cercando di occultare la verità: “Essendo il ragazzo ferito originario di Scampia, pare che l’episodio vada associato ad un regolamento di conti”.
Fu questa l’unica frase rivolta ad un ragazzo ricoverato in fin di vita dai cronisti della Rai, in diretta nazionale, durante la fase di concitata “contrattazione” che anticipò l’inizio della partita.
Ciro Esposito: un nome “troppo napoletano”, con l’aggravante di provenire dalla “terra di Gomorra”.
No, uno così, non può essere vittima, non può essere possibile che non avesse nemmeno un coltello con sé.
“Non deve essere l’oltraggiato”.
Questa è la conclusione alla quale giunsero, un anno fa, degli sciacalli travestiti da giornalisti.
E poi c’è “Genny ‘a Carogna”: la preda ideale sulla quale parimenti ed ancor più cruentemente avventarsi. Il ghigno da cattivo, i tatuaggi, le movenze da “capo”, o meglio, da “boss” e soprattutto “quella maglia”, “quella scritta”. Forte, eloquente, oltraggiosa, irrispettosa della memoria di un “servo dello Stato”.
Una maglietta. Per giorni, non si parlerà d’altro.
C’è un ragazzo di 30 anni che lotta per rimanere aggrappato alla vita, perché raggiunto da un proiettile esploso da un romanista, un ex ultrà, una vecchia conoscenza del calcio italiano e i giornali e le tv di tutto il mondo continuano ad ostentare le foto di “Genny ‘a Carogna” con “quella maglietta” in bella mostra.
Il puntuale ed immancabile Roberto Saviano, prima di tutti, sventola il suo saccente post di denuncia, volto a rilanciare il “sodalizio tacito e perfetto” tra calcio e camorra.
Neanche lui si preoccupa di richiamare l’attenzione pubblica e mediatica su Ciro, Gennaro ed Alfonso: tre ragazzi contro i quali sono stati esplosi colpi d’arma da fuoco. Tre ragazzi feriti da proiettili mentre si recavano allo stadio per assistere ad un incontro di calcio.
I media sono stati, però, in grado di spingersi anche oltre: nei giorni successivi all’agguato che 52 giorni si è rivelato letale per la vita di Ciro Esposito, Studiosport asseriva che la pistola fosse di proprietà di quest’ultimo e che il De Santis gliel’avesse sottratta dalle mani per difendersi.
Tante, troppe calunnie si sono accavallate in quei giorni.
Infinite brutture, innumerevoli spropositi.
Le incursioni dei “cronisti d’assalto” lungo le vie del centro storico, animate dalla livorosa speranza di catturare lo scoop accaparrandosi un’esclusiva con Genny o con qualcuno dei suoi “sudditi”, erano fenomeni da baraccone all’ordine del giorno che dividevano la scena mediatica con il decoro e la dignità che fin da subito, mamma Antonella, ha invece, di tutta risposta, puntualmente esibito.
Il 3 maggio scorso, hanno sparato a tre napoletani, ma sono state inferte plurime mazzate anche a Napoli.