Un anno senza Boskov.
Il primo di un’eterna serie destinati a trascorrere senza le sue” lezioni di calcio”, mai banali, sempre acute, come cornici perfettamente aderenti al pensiero che contornavano, partorite dal semplice, schietto e sincero intelletto di un uomo inclonabile e scandite da quell’accento inconfondibile.
Manca Boskov. Alcune domeniche un po’ di più, ma mai un po’ di meno.
Manca al calcio, a quel calcio sempre più diverso e distante dal “gioco sportivo” che ha amato, venerato, ossequiato ed arricchito per tutta la vita.
Quel calcio in cui le partite si giocavano tutte alla stessa ora, la pay tv si chiamava “Tutto il calcio minuto per minuto” e veniva trasmessa mediante le onde sonore della radio, l’Europa League era Coppa UEFA e la Champions era “La coppa dei campioni”.
Erano gli anni in cui “gli stranieri” guardavano al calcio italiano con occhi pregni di devota ammirazione e quando due squadre scendevano in campo, pensavano solo a giocare a calcio, quel calcio che viveva di emozioni ed era personificato da 22 giocatori che davano tutto, in ogni partita, come se fosse l’ultima, liberi dal cinismo dei calcoli aritmetici e dalle complesse dinamiche che come sottili, ma fitte ragnatele, minuziosamente, oggi, ne avvinghiano neuroni e respiri. Erano gli anni in cui, il fair play, non veniva “imposto” dagli spot pubblicitari, ma nasceva dal cuore, di piccoli, grandi uomini che, a suon di calci, hanno scritto le più sincere, sane ed educative pagine di questo sport.
A Napoli, erano gli anni di “Record cucine”, di Taglialatela, Pecchia, Boghossian e Carmelo Imbriani, l’eterno guerriero che Mister Boskov ha ritrovato, con le ali spalancate, pronto ad accoglierlo in paradiso, il cuore dei tifosi era tramortito, da quella recente e profonda ferita, dalla quale continuava a grondare sangue misto a passione che abilmente sapeva e voleva trasformarsi in brama di riscatto e desiderio di rivalsa. Erano gli anni dei bagarini, di: “A, B, curve, distinti”, quelli in cui non era necessario il biglietto nominativo e la tessera del tifoso per accaparrarsi un posto allo stadio. Erano gli anni in cui “la discriminazione territoriale” si chiamava sfottò e nei cuori e nelle voci dei tifosi regnava la goliardica ironia e non la becera ignoranza. Erano gli anni in cui il calcio era percepito, vissuto ed interpretato come uno sport, non come un business.
Erano gli anni di Vujadin Boskov, un sopraffino “professore del calcio”, di quel calcio libero da fronzoli e corbellerie, crudo, ruvido, essenziale, pragmatico, sagace, conservatore di quel classico e genuino senso al quale, incessantemente e brillantemente, conferiva espressione ed espressività, un uomo lungimirante ed ironico, le cui freddure sono destinate a fungere da pietra miliare sulla quale ancorare dottrine, principi ed ideologie riconducibili a quello che viene definito “lo sport più bello del mondo”.
Almeno lo era, lo è stato senz’altro, quando Boskov era seduto in panchina.
“Il calcio moderno” definirebbe un allenatore del calibro di Boskov uno “special one”.
In realtà, in quei cuori sinceramente innamorati di questo sport e che portano tatuate sulla pelle le emozioni che quel calcio era in grado di consegnare ai suoi spettatori, il nome “Boskov” ingloba, riassume, sintetizza ed enfatizza l’accezione di senso più autentica e saggia attribuibile al calcio.
Quanto tristemente continua a verificarsi nel nome di un pallone che rotola sotto l’impeto di calci inferti da scarpini con i tacchetti, tristemente ed inequivocabilmente, insegna che un anno fa non è morto solo Vujadin Boskov, ma, anche e soprattutto, un pezzo corpulento di quello sport che per quanto grezzo e rude, eppur ineccepibilmente perfetto così com’era, può e deve essere propriamente definito “pallone” e non calcio.