Oggi è il 24 aprile. Certo, lo è come tutti gli anni. Ma oggi è il centenario del genocidio degli armeni. Centinaia di migliaia di persone andranno in pellegrinaggio a Tsitsernakaberd, presso il Memoriale del Genocidio in cima a un’isolata collina a Yerevan in Armenia, per ricordare il massacro (qualcuno lo chiama proprio “genocidio”) di migliaia e migliaia, forse di più, di armeni a inizio ‘900.
Naturalmente gli esecutori di tale massacro, i turchi, negano. Inoltre, sempre wsecondo loro, non lo si deve definire “genocidio”, ma “guerra civile, “emergenza” umanitaria, e così via…
La questione armeno-turca mi ricorda sempre più la questione risorgimentista: il sangue di migliaia di uomini, donne, bimbi dobbiamo definirlo in maniera ‟”politically correct” (“correct” ovviamente secondo la sola prospettiva dei ‟vincitori‟) come ‟guerra‟ (in ogni caso perché dovrei festeggiare una guerra contro la mia terra e la mia gente?), ‟liberazione gratis et amore Dei‟ (addirittura!) e così via…
Questioni di lana caprina e di giochi di parole che non cancellano il male, adatti giusto a lestofanti in vendita e caproni mediatici.
Ma gli armeni hanno una loro casa, una loro capitale, una propria Memoria libera e a casa loro, non occupata dalla Turchia, sono liberi di Ricordare.
I napolitani, i siciliani, i duosiciliani, no, non hanno questo “Diritto”, non hanno il diritto di Ricordare loro stessi.
Non hanno piazze e nemmeno vicoli liberi per ricordare, perché le loro piazze, le loro scuole, le loro strade, fino al più piccolo dei loro vicoli, la loro Memoria collettiva è occupata da chi compì quei massacri, da chi spogliò una terra della propria dignità e di un proprio futuro, dipingendo i suoi abitanti come una razza maledetta, esponendo in un macabro museo le teste mozzate dei suoi patrioti resistenti come brutali trofei di guerra. Questo macabro luogo di inumani trofei guerreschi esiste ancora, e ancora riceve laute sovvenzioni pubbliche e qualche difesa d’ufficio da chi nega per malafede o, più squallidamente, è pagato per negare. La damnatio memoriae verso un periodo storico è la spia di una profonda debolezza e di una grande carenza democratica in uno Stato. Forse lo Stato italiano si sente ancora profondamente inadeguato e carente nei confronti del Regno borbonico? O si sente soprattutto inadeguato ad affrontare la verità storica? Ha ancora bisogno di raccontare ai propri cittadini (qualcuno li chiama “sudditi”) che essi vivono nel migliore-dei-mondi-possibili”? Deve ancora giustificare”, sui propri libri scolastici, una situazione presente, frutto di ben determinate (talvolta volutamente scellerate”) scelte politiche, dalle tremende conseguenze, con miti antropologici ed invenzioni (pseudo)storiche?
Non occorre scomodare Gramsci o Adorno o Chomsky e nessun altro studioso di comunicazione e potere per comprendere una verità razionalmente evidente: chi detiene il potere ha, prima di qualsiasi altra cosa, necessità di assicurarsi un bene prezioso e indispensabile: il consenso. Massimamente se questo consenso ha bisogno di chili di maquillage per nascondere brutture evidenti e scelte scellerate le cui conseguenze sono ancora in corso sulla pelle di milioni di cittadini.
Si tranquillizzino gli ingenui e i prezzolati, i pavidi e i ciarlatani, i professorini a cottimo e i lacché dei mass media, nessuno vuole secedere, nessuno vuole restaurare alcun pluricentenario regno: l’unica restaurazione che si vuole è quella della verità storica, l’unico mezzo per poter cominciare, dopo 154 anni, un vero cammino insieme, forse più giusto, si spera più equo, sicuramente più onesto.