Giovanni Lo Porto ( 39 anni ), era un cooperante italiano che si occupava per la ONG tedesca Welt Hunger Hilfe (Aiuto alla fame nel mondo), della costruzione di alloggi di emergenza in Pakistan, nell’area messa in ginocchio dalle inondazioni del 2011.
Era arrivato in Pakistan il 16 gennaio per fare il suo lavoro, con impegno e professionalità. Giovanni aveva un passato degno di nota, dagli studi effettuati tra Londra e Giappone e esperienze sul campo in Croazia e Haiti, era tutto fuorché un avventuriero. Anni prima era già stato in Pakistan e nel 2012 vi era tornato con un progetto finanziato dall’Ue.
Per Giovanni, ridare alloggi alle popolazioni colpite dall’alluvione, era solo l’inizio di quello che sarebbe riuscito a realizzare se, dopo soli tre giorni, il 19 gennaio 2012, mentre rientrava a Multan, nel Punjab pakistano, non fosse stato rapito da 4 uomini armati insieme al collega tedesco Bernd Muehlenbeck.
Da quel momento di loro non si seppe più niente.
Nel dicembre 2012 in un video, era apparso per meno di un minuto il collega tedesco: “Siamo in difficoltà”, aveva detto, chiedendo di accogliere le richieste dei mujaheddin. Parlava al plurale, una prova, seppure minima, che erano ancora due in vita.
Poi, era calato di nuovo il silenzio.
A Dicembre 2013 gli amici londinesi di Giovanni organizzarono una petizione affinché qualcuno si adoperasse per la sua liberazione. Petizione e appello replicati a Gennaio 2014, nell’anniversario del suo rapimento, senza tuttavia rompere il muro del silenzio che aveva ormai circondato la misteriosa vicenda del suo rapimento.
Nell’ottobre del 2014, Muehlenbeck era stato liberato in una moschea alla periferia di Kabul. Al rientro in patria aveva raccontato che già da un anno i sequestratori avevano spostato Lo Porto. In quel periodo, il mondo del terzo settore e le Ong avevano rotto il silenzio con una lettera indirizzata all’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e al premier, Matteo Renzi, esortando le autorità a mettere in campo tutti gli sforzi possibili per riportarlo a casa.
Ma intorno al cooperante palermitano, il silenzio ha continuato ad oscillare tra prudenza e reticenza.
Poi purtroppo il tragico epilogo: Giovanni Lo Porto è rimasto ucciso in un raid americano per colpa di un drone.
La missione antiterroristica intrapresa dagli americani, consisteva nel lanciare un aereo militare senza pilota al confine fra Pakistan e Afghanistan, il cui obiettivo era un compound di Al Qaeda. Il drone però non sapeva che nel covo dei terroristi c’erano anche degli ostaggi.
Il drone è una macchina e in quanto tale, esegue gli ordini e non si pone domande.
Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, che si è assunto la piena responsabilità del raid, ha personalmente informato il presidente del Consiglio e subito dopo l’Unità di crisi ha immediatamente preso contatto con la famiglia Lo Porto per comunicare la notizia. Tutto questo è avvenuto nella giornata del 22 Aprile, ma la missione e la conseguente morte di Giovanni, è avvenuta a Gennaio.
Il direttore del Dis, il Dipartimento di informazione per la sicurezza, Giampiero Massolo, in seguito alle legittime proteste, per la ritardata notizia sulla morte di Lo porto, ha così dichiarato: ” L’idea di dare una notizia quando non si ha l’assoluta certezza può essere avventata e in un territorio come quello le verifiche sono complesse “.