Antonio Focas Flavio Angelo Ducas Comneno De Curtis Di Bisanzio Gagliardi, in arte Totò, muore d’infarto a Roma il 15 aprile 1967.
Pochi giorni prima della sua scomparsa in un’intervista aveva detto “Chiudo in fallimento. Nessuno mi ricorderà”, mai profezia fu così sbagliata.
Antonio de Curtis se ne va alle 3 di notte del 15 aprile 1967, nell’ora in cui solitamente andava a dormire. Il cuore lo tradisce. È in casa e ha Franca Faldini accanto.
Tutto comincia a Napoli, un luogo singolare dove il teatro nasce spontaneo nelle strade e dove il senso aristocratico dell’appartenenza è sempre pronto a capovolgersi nello sberleffo e nella capriola.
Antonio de Curtis, figlio del marchese Giuseppe e di Anna Clemente, nasce nel quartiere Sanità, il rione più popolare della città. Sta per finire il secolo, è il 15 febbraio 1898 e Totò, così lo chiama subito la madre, entra nel 1900 triste, solo, con i genitori non sposati, un padre assente, pochi soldi in casa e una madre dalle idee poco chiare che sogna di fare di lui un prete o un ufficiale di marina. Totò studia poco e male, la sua infanzia è stentata, con il dubbio di non essere amato e la strana idea di fare l’attore.
E fu così, che Totò, divenne l’attore dell’eccesso e del paradosso, l’Arlecchino del Novecento, il teatrante istintivo dall’inventiva estemporanea, con la sua maschera dolce-amara da malcapitato, un elegante principe sulla scena e nella vita. Divo anti-divo, uomo e non caporale, interprete dolente e irridente di un’umanità che subisce la vita, compone un burlesco trattato sull’arte del vivere all’italiana, cioè dell’arrangiarsi. La sua logica folle, la mimica dirompente, l’acrobazia metafisica, l’improvvisazione, l’imprevedibilità, il gioco verbale, le battute fulminanti fanno di lui un “buffone” incontenibile e inquietante, un clown stupefacente e un mimo di razza. Legato da un patto d’amore al suo pubblico, non lo delude mai. «Come lui – scrive un critico – non c’è nessuno».
La sera del 13 aprile all’autista Carlo Cafiero, che lo accompagnava a casa a bordo della sua auto, Totò confessò:” Cafie’,non ti nascondo che stasera mi sento una vera schifezza”.
Trascorse l’intero pomeriggio del 14 aprile in casa a parlare con Franca del futuro, dell’estate che sopraggiungeva e del suo desiderio di godersi le vacanze a Napoli, sopra Posillipo. A sera consumò una minestina di semolino e una mela cotta, poi i primi sintomi:tremore e sudore:”Ho un formicolio al braccio sinistro” mormorò pallidissimo. Franca capì subito: era il cuore. Furono avvertiti la figlia Liliana, il medico curante e il cugino Eduardo.
Alle due di notte si svegliò e rivolgendosi al cardiologo disse: “Professò, vi prego lasciatemi morire, fatelo per la stima che vi porto. Il dolore mi dilania, professò……meglio la morte” e rivolgendosi al cugino “Eduà,Eduà mi raccomando quella promessa: portami a Napoli”
Erano le tre e trenta del 15 aprile 1967.
Alle 11 e 20 del 17 aprile viene trasportato nella chiesa di Sant’Eugenio in Viale delle Belle Arti a Roma. Sulla bara, la bombetta con cui aveva esordito e un garofano rosso.
La cerimonia si limita a una semplice benedizione a causa delle difficoltà create dalle autorità religiose perché con Franca Faldini, l’attore non era sposato.
Totò aveva sempre espresso il desiderio di avere funerali semplicissimi. Alle 16 e 30 la salma di Totò giunge a Napoli accompagnata, dall’uscita dell’autostrada fino alla basilica del Carmine Maggiore, da una marea di folla. Dopo l’ufficio funebre, la salma del grande comico è fatta uscire dalla chiesa attraverso una porta secondaria.
Scortata da motociclisti della polizia a sirene spiegate, raggiunge il cimitero del Pianto per essere inumata nella cappella gentilizia di famiglia. Poco prima, dopo la funzione religiosa, Nino Taranto, suo insostituibile amico, lo aveva ricordato così:
“Amico mio questo non è un monologo, ma un dialogo perché sono certo che mi senti e mi rispondi. La tua voce è nel mio cuore, nel cuore di questa Napoli che è venuta a salutarti, a dirti grazie perché l’hai onorata. Perché non l’hai dimenticata mai, perchè sei riuscito dal palcoscenico della tua vita a scrollarle di dosso quella cappa di malinconia che l’avvolge. Tu amico hai fatto sorridere la tua città, sei stato grande, le hai dato la gioia, la felicità, l’allegria di un’ora, di un giorno, tutte cose di cui Napoli ha tanto bisogno. I tuoi napoletani, il tuo pubblico è qui. Ha voluto che il suo Totò facesse a Napoli l’ultimo “esaurito” della sua carriera e tu, tu maestro del buonumore, questa volta ci stai facendo piangere tutti. Addio Toto’, addio amico mio. Napoli, questa tua Napoli, affranta dal dolore vuole farti sapere che sei stato uno dei suoi figli migliori e non ti scorderà mai. Addio amico mio, addio Totò.”