Lunedì, martedì, mercoledì, giovedì, venerdì e poi Maronna mia domani è Sabato!
L’adrenalina sale di giorno in giorno. Tra una lavatrice, una lavata di piatti e l’altra eccolo arrivato. L’agognato, desiderato e amorevole sabato. E’ cosi dolce il suo sapore che scompare anche quella atavica noia che caratterizza il rito del “aggia j a piglià e criatur’ a scol’”. Proprio lì fuori dal cancello della scuola, non ancora aperto, al cospetto del solito bavoso bidello, al fianco delle irriducibili “cumpagn” si condivide la gioia.
E’ cosi incontenibile quella felicità che in quei dieci minuti che attendono lo squillo della campanella si consuma l’antipasto alla portata principale.
“C’ fai staser? C’ t’ miett?”
E come Miss O’Hara dinnanzi alla sua amata “Tara” l’orizzonte del santo sabato si apre nelle menti delle presenti. Il primo quesito è quasi una formalità, alla quale si adempie con malizioso sguardo. La ricerca di una conferma sottintende è vitale perché ad essa sono legate mille destini.
Se la domanda è scontata, la risposta è sua gemella: “Vac all’Aucian “.
E la soddisfazione cade sulle amiche come pioggia di marzo! Affinché però il piano si realizzi alla perfezione un ulteriore conferma è d’obbligo. “Ma chell c sta semp o traffic ngopp o doppio senz. Si sicur?” L’animo rassicurato della signora si crogiola mentre gioiosa si dirige verso casa quasi incurante dei piagnucolosi schiamazzi della prole che si trascinano nel cammino aggrappandosi come scimmiette alle mani della sognante madre. Il suo cuore gronda di gioia e nella sua mente si muovono, come mille violini suonati dal vento, i suoi preziosi capi di abbigliamento che danzando, danzando si accoppiano nelle combinazioni più fantasiose. E come si può, in questa armonia di dolci pensieri, accorgersi di essere giunte a casa?
Eppure la signora è lì che distribuisce, come un automa, il pasto delle 13.30. Ed in men che non si dica, come una cenerentola meroliana, è giunta l’ora del preparativo. I pianti e gli isterismi della prole sono presto archiviati. “Io decid c ti a mettr. O legginz che e puà sta buon co pellicciott ros. Tu invec vai buon ca tut” L’accessorio coniugale, ovvero il marito, in quanto tale, va calzato come da copione. Mutande, calzini, pantalone e maglioncino nuovi con il solito ed irrinunciabile giaccone del Napoli.
Perchè si sa, ogni occasione è buona per mostrare la fede azzurra. La vestizione di prole e coniuge è sommaria e superficiale, quella della signora è una cerimonia che va celebrata con cura. Il make up e l’outfit sono frutto di una meticolosa riflessione che non può deludere nessuno.
“S’adda verè o sciatusc pecciò m’agg fatt’ e torcion’” E il kajal sale, sale verso l’alto perché si sa “Nu poc’ e trucc’ c’ vò”. Cosa importa poi se la carnagione di collo e mani indossano ancora il pallore invernale “Nu poc e fard sadda mettr”. Lo stesso destino attende le labbra, contornate con il pezzo di carboncino con cui da bambini si dava vita al gioco della campanella.
Il tempo vola e gli abiti anche. La cerimonia è finita, la magia è compiuta. Sulla passerella fa ingresso, vestita di tutto punto la signora. I critici, che nell’attesa, si sono stesi sul divano di finta pelle ricoperto di vero cellophane, la ammirano. La piccola è in adorazione, il piccolo è disorientato, il coniuge, più spazientito che meravigliato, si solleva facendo leva sui callosi pugni. La frase “Ammucemm ia” accompagna tutti verso la meta. L’ingresso all’ Aucian ha un sapore hollywoodiano per la signora. L’occhio è attento, scava e scruta e poi trova: le amiche, con le rispettive famiglie. Un semicerchio che si dischiude dinnanzi alla nuova arrivata con un corale e acuto “Oeeeee”.
I mariti restano sul fondo, i figli anche. La vera festa è solo per le signore. Il walzer di sguardi può iniziare solo ora. Ora che pois, righe, maculati, zeppe e shatush sono gli uni di fronte agli altri per un altro indimenticabile sabato al centro commerciale.