Napoli, 1841. Il giovane commissario Fiorilli ha appena preso servizio a Vicarìa, uno dei quartieri centrali più malfamati della città. Non ha ancora fatto l’abitudine al male che ne percorre le strade, quando si trova a dover indagare sulla scomparsa di un bambino, un orfano rinchiuso nel cosiddetto Albergo dei poveri. Il piccolo Antimo aveva cercato di scappare da quell’edificio opprimente – che i napoletani chiamano anche Reclusorio o Serraglio – autentica città nella città che ospita vecchi, donne perdute e soprattutto una spaventosa massa di bambini esposti a ogni genere di pericoli. È così che la tragica storia di Antimo si trasforma per Fiorilli in un’ossessione, una ricerca della verità che gli fa incontrare Emma, insegnante di musica al Reclusorio, bella e idealista, ma che lo getta in pasto a medici avidi di carne giovane, funzionari corrotti, camorristi e sbirri cresciuti nello stesso fango. Tutto,nel romanzo ruota intorno al tribunale della Vicarìa.Infatti la prigione della città è anche il luogo dove si svolge l’evento che i napoletani aspettano ogni settimana come unica speranza di salvezza: l’estrazione del Regio Lotto. E qui Fiorilli scoprirà che la giustizia degli uomini, troppo spesso, è cieca. Proprio come la fortuna.
Vladimiro Bottone ci conduce nel cuore del quartiere più malfamato di Napoli, per mostrarci come l’ingiustizia e la sorte siano due presenze che si compenetrano nelle vicende umane.E’ davvero emblematico che, nella Napoli ottocentesca, l’edificio della Vicarìa ospitasse sia il Tribunale penale che il luogo in cui si svolgevano le estrazioni del Lotto. L’intuizione del romanzo è questa, in fondo: molto spesso la Giustizia finisce per essere amministrata con la stessa casualità e la stessa cecità che governano un’estrazione a sorte come quella del Lotto. Non è assolutamente casuale che il Lotto costituisca uno snodo cruciale nella trama “gialla” del romanzo.
Bottone,classe ’57 napoletano di nascita, torinese di adozione,giornalista e scrittore costruisce una storia cruda, dura come accade quasi sempre quando si racconta della miseria, condita di speranze disperate e malasorte . In tale cornice, la figura del commissario Fiorilli si erge per dirittura morale e pietà umana.
Il vero capolavoro di questo libro, tuttavia, risiede nella sua principale ambientazione: il mastodontico “Albergo dei poveri”. Il nome ne fa intuire tutte le intenzioni caritatevoli a beneficio di orfani, di malati e mutilati, di esseri sfortunati o miserabili. Ma restano appunto intenzioni, se si pensa che l’edificio è conosciuto dai napoletani come “il Reclusorio” o “il Serraglio”: una di quelle strutture inventate per garantire l’isolamento tra un “dentro” e un “fuori”, prigioni mascherate da strutture di accoglienza.
L’ “Albergo dei Poveri” esiste davvero, e a Napoli ancora domina incontrastato l’intera area di piazza “Carlo III, il sovrano spagnolo che lo fece costruire. Una delle più grandi costruzioni del ‘700 europeo,nonostante abbia smesso (fortunatamente) di garantire le “funzioni” raccontate nel libro, con la sua spettacolare maestosità, riesce ancora ad incutere timore.