Alle 3:32 di lunedì 6 aprile del 2009 si aprì una profonda ferita nel cuore geografico dell’Italia, nella memoria collettiva e nell’anima di questo Paese che a dispetto dei sei anni trascorsi, si rivela ancora capace di evocare forti e struggenti suggestioni.
La terra trema, violentemente e macina morte e distruzione.
Preceduta da uno sciame sismico registrato a partire dal 14 dicembre 2008, la scossa di quella tragica notte toccò i 6,3 gradi di magnitudo, radendo al suolo gran parte del centro storico del capoluogo abruzzese e delle frazioni di Onna, Paganica e Tempera. Pesantissimo il bilancio umano: 309 vittime e 1.178 feriti, oltre a 65mila sfollati.
Avvertito principalmente in Abruzzo e in misura minore nel Lazio e nelle Marche, il sisma dell’Aquila è risultato, per numero di vittime e danni materiali (oltre 10 miliardi di euro), il 5º terremoto più distruttivo in Italia in epoca contemporanea.
La burocrazia e la complessità del contesto urbano continuano a rallentare la ricostruzione dell’Aquila, ad oggi ridotta a un enorme cantiere a cielo aperto. A ciò si aggiungono le diverse inchieste giudiziarie, una delle quali ha portato nel 2013 alla condanna, in primo grado, di 7 scienziati, all’epoca dei fatti membri della commissione Grandi Rischi.
L’accusa è di aver dato false rassicurazioni alla popolazione locale, rispetto allo sciame sismico d’intensità crescente, registrato cinque giorni prima del terremoto. La sentenza è stata quasi del tutto ribaltata in appello, nel 2014, con l’assoluzione di sei dei sette imputati.
La solita Italia, quella che non vorremmo mai riportare.
Soprattutto al cospetto di simili sciagure.