La strada è in salita, dai bassi e dai balconi dei primi piani l’odore del bucato è avvolgente, quasi mi accompagna. Sento chiacchierare una donna, probabilmente al telefono, la voce proviene da uno dei tanti bassi che mi si presentano sulla destra. La porta è mezza socchiusa, sono circa le 10:00 del mattino e nel basso è in atto la consueta pulizia giornaliera. La donna, una signora sulla sessantina, indossa una maglia rosa con dei fiori ricamati bianchi. La prorompenza classica di quell’età si mostra nell’enorme seno che la donna copre per bene come una volta si faceva. Chiacchiera animatamente con una persona al telefono e gli chiede di essere clemente con lei e di accordarle un buon prezzo sulla spesa che da lì a breve questo gli porterà: “trattm bon e capit?”
Come succede con la musica quando due pezzi si accavallano per poi diventare uno, mentre continuo a camminare, la voce di un’altra donna che non riesco a vedere, domanda – presuppongo al marito – cosa avesse voluto mangiare per cena: “a tripp? Vuliss nu poc e tripp?” Sull’altro lato della strada, due bambini camminano a passo sostenuto e scendono verso il Rione. Incuranti del vento gelido, indossano entrambi il completo da calcio: quello sulla mia sinistra, corpulento e capelli rosso ruggine, porta sotto al braccio destro un pallone ultima generazione abbastanza malconcio, più grande della sua stessa testa. Chiacchierano sulla partita che la sera scorsa avevano giocato e quello sulla destra, più basso e scuro di carnagione, rammenta all’amico che “razza” di gol fatto e come: “o shock!”, dove shock è un affermazione che i calciatori Napoletani usano per sottolineare una giocata che provoca una condizione di imbarazzo per l’avversario, un dribbling o un tunnel, ad esempio.
Sempre ai lati della strada, decine di edicole che fanno da vetrina ai tanti santi. Sono talmente tante che ogni devoto di buon livello volendo rivolgere una sola preghiera, per ciascuno di quelli in Mostra, dovrebbe dedicare almeno 4 ore al giorno per percorrere una strada di poche centinaia di metri. Il tratto che da Materdei mi porta alle Fontanelle, punta estrema del Rione Sanità, è decisamente meno chiassoso: si tratta di costeggiare sulla sinistra una strada che partendo dalla metro porta ad una rampa di scale che sovrasta un’altra rampa di scale.
A guardarle dall’alto formano una bella composizione architettonica, ricordano una vecchia foto di Henri Cartier Bresson, una ripida rampa simile in un posto di Parigi che somiglia molto alla Napoli che ho davanti agli occhi. Sono venuto per il cimitero con l’intenzione di fotografare le “ Capuzzelle”, non c’ero mai stato prima. Una volta sceso le scale chiedo a due signori, che discutono animatamente fuori ad un bar, se per favore avessero potuto indicarmi la strada per arrivare al Cimitero delle Fontanelle.
Uno di loro, il più giovane, rosso in volto per la foga con cui affronta la discussione mi indica con il dito la salita: “vai sempre dritto, a strad là spont” . Due sera prima, il Napoli aveva perso e lui non riusciva proprio a farsene una ragione, aveva ancora il dito alto per indicarmi la via, ma continuava nello spiegare all’altra persona le cause della sconfitta della squadra. Le sue cause. Se a Napoli esiste una cosa nella quale tutti si sentono eccellenze questa è il calcio. Un Napoletano umile è convinto del fatto che può tranquillamente allenare una squadra di serie C, per un Napoletano spavaldo non esistono limiti. In questa città, il lunedì mattina tutti sanno perché il Napoli ha perso e tutti hanno la soluzione: se la squadra vince, invece, si limitano a proporre dei piccoli, ma secondo loro utili, accorgimenti per le prossime partite.
Io, nel frattempo, mi ritrovo alla fine della strada in una piccola piazzetta con sulla sinistra un’antica chiesa e poco più avanti un cancello che fa da ingresso ad un deposito di materiale edile. Sempre sulla sinistra, poco dopo, un altro cancello verde che quasi ti devi sforzare per vedere, sembra proprio voglia nascondersi, e sul muro un cartello con su scritto “Cimitero delle Fontanelle”. Il Cimitero delle Fontanelle è uno dei più antichi della città. Fu chiamato così perché in questa zona, in un passato abbastanza remoto, c’erano varie fonti di acqua. Esso accoglie migliaia di resti – circa quarantamila – di esseri umani, per lo più vittime della grande peste che colpì Napoli nel 1656 e del colera del 1836. Non proprio i migliori periodi della storia Partenopea.
Ne avevo sentito parlare tante volte: in città girano tante leggende sulle Capuzzelle, eppure, probabilmente, ho iniziato a conoscerlo in modo visivo e del tutto immaginario solo un anno fa, a Monfalcone nel profondo Nord Est dell’Italia. A Maggio scorso, mi trovavo nella cittadina del Friuli Venezia Giulia per un lavoro: quel pomeriggio ero a pranzo con il mio amico Salvatore che vive in quel posto con la moglie Lisa e la sua famiglia. Nel mio quartiere Salvatore è conosciuto da chiunque: da piccolo era soprannominato “o Pazz”. E’ famoso soprattutto per le sue abilità calcistiche: da giovane era tra i più forti, se non il più forte. Chiunque volesse vincere una partita lo chiamava. Un attaccante fulmineo e cattivo, un goleador. Quando viene giù per le vacanze estive o per Natale mi capita di passare un po’ di tempo con lui ed è un continuo di persone che lo fermano per sapere come sta: è immarcabile. Dopo aver pranzato, discutevo con lui e con la sua famiglia sul fatto che in casa loro il calcio fosse un culto e che non c’era solo Totore che aveva indiscutibili doti, ma anche i suoi figli e soprattutto suo Padre. Ciro. In attesa del caffè preso dai racconti e stimolato dalla mia curiosità su suo Padre, a Salvatore venne in mente, su consiglio della moglie, di raccontarmi che tipo di persona fosse attraverso un aneddoto capitato qualche decina di anni prima.
Una particolare sera, Salvatore era appena tornato da un appuntamento con Lisa, che all’epoca era ancora la sua fidanzata, posata la macchina, come sempre faceva verso mezzanotte, stava per fare rientro a casa. Quella sera però aveva dimenticato le chiavi. Arrivato sotto al suo palazzo, cosciente dell’ora e del casino che avrebbe fatto se avesse scavalcato il cancello, decise di suonare il citofono. Con sua grande sorpresa dopo un quarto d’ora la sua chiamata ancora non aveva avuto risposta. Preoccupato dal fatto che nessuno avesse sentito, cosa anomala visto che a casa nessuno andava a letto presto, decise di riprovare in modo più energico. Una, Due tre volte. Un altro tentativo ancora, fino a quando dal citofono una voce molto flebile rispose: “Chi è?” e lui “Mà arap so Totor, sto da un quarto d’ora qua giù ma che succede?” La mamma apre senza fiatare, lui preso dal panico sale di corsa le scale che lo portano al 4 piano – 4 gradini per volta -ed appena fuori l’ingresso trova la mamma che portando l’indice alle labbra gli fa segno di stare zitto e non fare rumore, poi a bassa voce: “Totò a mamma non gridare tuo padre sta parlando con un paziente” e Salvatore incredulo – l’ultima volta che era uscito di casa sua padre faceva il carrozziere, non il medico – chiede a sua madre: “ Ma come un paziente?” e la madre sempre a bassissima voce gli dice: “Totore tuo padre ha avuto un’illuminazione: ora vede il futuro, legge le carte! E’ Cartomante”.
La porta dell’ingresso lentamente gli si aprì davanti ed la casa, la stessa che poche ore prima aveva lasciato in uno stato di normalità, appare del tutto cambiata ai suoi occhi. Enormi candele accese ovunque, teschi che campeggiano su mobili che prima della rivelazione paterna ospitavano foto storiche della famiglia e di Diego Maradona! Diego Armando Maradona! Fumo denso e bianco sparso per tutta la casa ed un rosso opaco che faceva da luce ad un’ atmosfera lugubre degna di una scena di un film di Alfred Hicthcock. “Mamm ro carmn e c’re ca o cimiter re funtanell!?” esclamò Totore nello stupore più totale. Cinque minuti dopo dalla stanza, che fino a quel momento avevano usato esclusivamente come sala pranzo, esce Ciro che nel frattempo si era trasformato nel Mago Cyrus ed una volta salutato il suo “paziente” visibilmente sollevato dalle parole del seducente visionario, con in dosso una veste di raso nero, lunga fin sotto i piedi ed in mano delle carte giganti, saluta con tutta la naturalezza del Mondo il figlio che gli chiede: “Papà ma che stat?” e lui quasi sorpreso dalla domanda: “nient Totò a papà”.
Nel frattempo passato per la casetta del custode, ultimo contatto con il Mondo esterno, mi trovo all’interno del Camposanto. Scavato dentro una roccia mi si presenta cupo e maestoso. Si tratta di una serie di grotte che si incrociano e formano una treccia di corridoi. In ognuno di questi, sistemati con cura uno sopra l’altro, migliaia di teschi ed ossa di ogni tipo. Posizionati quasi sempre a rombo formano, in alcuni punti, delle perfette composizioni geometriche e, francamente, faccio fatica a capire verso e tipo di applicazione. Sono trattati in modo del tutto comune tranne alcune eccezioni.
Il 95% di questi non ha un nome ed è dunque irriconoscibile, fanno parte della enorme massa, hanno però dalla loro parte il fatto che essendo stati messi tutti vicini, per l’eternità, avranno comunque almeno altri quattro teschi, uno per lato, con cui condividere il silenzio perpetuo del posto.
Il 5% invece è stato riposto in piccole nicchie o scatole, anche di fortuna. Molte sono costruite in marmo, ma nel mio giro ne ho viste anche qualcuna in legno e addirittura qualcosa che si avvicinava alla carta. Fuori dalle nicchie, in svariati modi, vi è applicato il nome del defunto o semplicemente, se dentro la nicchia vi si trovano più teschi, il cognome della Famiglia.
E’ usanza per i più fortunati possessori di nicchie o scatole mettere all’esterno delle stesse un oggetto che il defunto in vita apprezzava particolarmente. Il signor Cavaliere Esposito Francesco, ad esempio, fa sfoggio all’esterno della sua eterna dimora di due sigarette delle quali non riesco a riconoscere marca o provenienza. La famiglia Lieto, invece, ha fatto applicare sull’esterno della scatola una lastra di plastica, come a voler essere lasciati in pace ed io lo faccio.
Più avanti Anna Faenza condivide la sua nicchia con un altro teschio: in realtà fra i due faccio fatica a riconoscere Anna, sono uno vicino all’altro, attaccati come a volersi dare un bacio, una sorta di bacio eterno. Fuori dalla nicchia un biglietto della metro che di eterno ha ben poco, una volta durava 90’ minuti oggi giusto una corsa.
Proseguendo, all’esterno di una modesta scatola, forse la più malridotta, qualcuno ha piantato un bastoncino con sopra un cuore quasi a volersi scusare con il povero teschio ospite delle condizioni pietose in cui versa la sua dimora, come a dire: “agg’pacienz questo potevamo permetterci”.
Fra le tante tre sono le scritte ricorrenti “per grazia ricevuta”, “per voto” e “per fede”, la stessa fede che leggo sui biglietti che i visitatori, talvolta anche parenti, lasciano in appositi spazi “aperti al pubblico”. Tra decine di monete lasciate in pegno alle anime dei defunti e tanti biglietti mi colpisce uno in particolare che recita : “Uno di voi fa che trovi un posto di lavoro (serio e retribuito) per Alfonso e Paolo” in cambio nello stesso tempo lo scrittore promette e s’impegna a recitare tante preghiere per loro.
Ed è in questo scritto che trovo il senso del mio viaggio: le antiche speranze della gente e un pensiero tanto vecchio quanto deleterio per loro stessi che non condivido, ma che amo tanto quanto questa città e la sua astratta ed eterna ricerca di aiuto. Da lontano sento delle voci, quattro ragazze si apprestano ad entrare nel camposanto, nascosto in uno dei corridoi esterni non possono vedermi. Sorridono e chiacchierano spensierate, forse anche per loro si tratta della prima volta e sembrano eccitate all’idea di entrare in un posto tanto leggendario. Ma una volta superata la soglia della casa del custode alla visione delle prime ossa smettono di colpo di parlare. Migliaia di teschi uno sopra l’atro spengono qualsiasi fuoco, in religioso silenzio e con rispetto assoluto iniziano il mio stesso viaggio.
Viaggio nella testa di Napoli.
Giuseppe Divaio