Le isole del Golfo di Napoli, da sempre considerate Perle del Mediterraneo, non sono solo mete turistiche e località balneari molto gettonate, ma terre dal patrimonio storico e culturale millenario, arricchito da una natura generosa di colori, profumi e sapori.
Sdraiata nel mare, accarezzata dai caldi raggi del sole partenopeo, la più piccola e caratteristica delle tre sorelle: Procida.
A partire dal nome, le cui origini si perdono tra realtà e leggenda (dal greco “prochetai” cioè “che giace”), le prime notizie su Procida, tra le ipotesi più suggestive, risalgono all’VIII secolo A.C. quando, provenienti dall’isola di Eubea, i coloni Calcidesi vi approdarono con il loro bagaglio culturale, in campo artistico e culturale.
Di fama mondiale, orgoglio e vanto degli isolani, la Pasqua a Procida è un evento ricco di tradizioni popolari che assume notevole valenza di emozioni, spiritualità e folklore. I procidani vivono questa festa con grande partecipazione, entrando nel clima pasquale molte settimane prima, con la preparazione dei “misteri”, carri allegorici su cui vengono realizzate rappresentazioni iconiche della vita di Gesù.
A partire dalla domenica delle Palme, i fedeli si recano in chiesa in processione portando un rametto di ulivo o di palma, che viene benedetto durante la messa, con valore propiziatorio, tornati a casa il pranzo sarà rigorosamente umile, per rispettare una lettura del passo del Vangelo, dove si descrive la Passione di Cristo.
Un detto procidano cita: “Domenica delle palme, messa lunga e tavola corta”.
Dopo le processioni rionali della Domenica delle Palme, si inizia il giovedì sera con la processione degli Apostoli incappucciati, promossa dalla Congrega dei Bianchi, la più antica delle quattro esistenti nell’isola, fondata nel 1583 dal Cardinale Innico D’avalos d’Aragona.
La prima parte si svolge in una delle tredici chiese dell’isola dove i dodici confratelli dapprima indossano il loro abito di confraternita e poi celebrano il rituale della Lavanda dei Piedi.
Terminata la funzione religiosa gli apostoli si incappucciano e con una croce sulla spalla e una corona di spine sul capo procedono per le strade dell’isola scortati dalla figura del “centurione”, dai cerimonieri, e dai restanti partecipanti delle confraternita che sfilano in mano con dei grossi ceri, in un corteo carico di suggestioni.
Il corteo prevede una visita al SS. Sacramento esposto nelle diverse chiese che incontrano lungo il percorso. Il clima è surreale e incute quasi timore, come se l’atmosfera fosse ancora quella dei primi del ‘600 quando – si racconta – non mancavano scene cruente di autoflagellazione.
Al termine della processione, nella sagrestia della chiesta che è stata scelta, si svolge l’Ultima Cena: gli apostoli, disposti lungo un grosso tavolo, consumano un pasto a base di legumi, pesce arrostito, agnello, pane azzimo e vino.
All’alba del Venerdì Santo uno squillo di tromba seguito da tre colpi di tamburo chiama a raccolta il popolo: “a chiammata”. Da Terra Murata, l’antica fortezza a 90 metri sul livello del mare, sopraggiunge il corteo della Congrega dell’Immacolata Concezione. I confratelli, con le loro mantelline azzurre e turchesi (da cui l’altro nome di Congrega dei Turchini), si prendono il centro della scena. L’arrivo dei bambini stempera immediatamente l’elettricità nell’aria creatasi la notte precedente e l’ambiente diventa festoso. Cominciano i Misteri.
I primi carri sono quelli dei bambini. La scelta di farli sfilare per primi è la migliore garanzia sul futuro di una tradizione secolare che richiama migliaia di persone tra turisti e fedeli, oltre alla crescente attenzione mediatica degli ultimi anni. E poi i carri sono un crescendo di fantasia e ingegno. Perciò, aprire la sfilata con quelli dei più piccoli ha una sua logica.
Seguono gli altri carri allegorici con rappresentazioni del Vecchio Testamento e del Vangelo. Il fatto che le scenografie sono realizzate con materiali “poveri” (cartapesta, legno, plastica, polistirolo) non deve trarre in inganno. Si tratta di tavole pesantissime, in molti casi mastondontiche, sorrette anche da 40 persone per volta. La fatica del trasporto a braccio per le strade anguste di Procida si somma così a quella precedentemente occorsa per la realizzazione dei carri. Mesi e nottate intere di lavoro per non “bucare” l’appuntamento del Venerdì Santo.
Ai “Misteri” seguono le “statue” che sono portate a spalla da due o quattro giovani.
Ai lati del corteo sfilano due ali di confratelli, ciascuno avente in braccio un “angioletto a lutto” per la circostanza, bambini piccolissimi – uno, due anni – vestiti con abitini neri bordati d’oro.
La Processione è chiusa dalla sfilata della statua lignea del Cristo Morto, opera dello scultore napoletano Carmine Lantriceni (1728), seguita dalla banda musicale isolana che intona commoventi marce funebri. Il Cristo, vero fulcro del corteo, viene portato a spalla dai confratelli più giovani e robusti. Il percorso è tutto in salita. Si procede lentamente. Si respira un’atmosfera di fede e profonda devozione. Il “Cristo” sale alla “Terra”, accompagnato dal salmodiare, in latino, di sacerdoti e fedeli.
A sera, verso l’imbrunire, nuova processione, con Via Crucis, per il ritorno del “Cristo” da Terra Murata nella Chiesa dei Turchini. Ancora preghiere, canti, recita di salmi, tanta partecipazione ed emozione.
La Domenica di Pasqua, la tradizionale messa con i riti della liturgia cattolica, chiude la settimana Santa e ad ogni fedele, resterà quel carico di spiritualità che lo sosterrà nell’anno a venire.
Un altro detto procidano cita: “Pasqua, messa corta e tavola lunga“.