“Ansia” ed “angoscia” sono normali termini che utilizziamo nel linguaggio d’ogni giorno. Quante volte ci capita di dire: “mi sento ansioso” o ” sono angosciato da…o per qualcosa”.
Eppure, queste due parole che pronunciamo spesso come sinonimi, esprimono due concetti differenti.
“Ansia” significa letteralmente “essere in una situazione di tensione”, qualcosa che si sta svolgendo ora e che causa allarme (ad esempio, essere ansiosi perché fortemente in ritardo ad un appuntamento). L'”angoscia” è una proiezione al futuro di una paura, cioè qualcosa che non si sta svolgendo ora e che potrebbe accadere domani anche se non è certo che avvenga realmente (ad es. sono angosciato dal fatto di rischiare di essere in ritardo all’appuntamento che avrei tra due giorni…).
Uno dei primi ad utilizzare il termine “angoscia” ( =Angst) fu il filosofo Kierkegaard, definendo questo stato come lo spaesamento e l’irrequietezza insoddisfatta che coglie chi vive la sua esistenza solo ad uno stadio estetico ed edonistico e sente però, nel contempo, l’esigenza di un’istanza etica e religiosa. Con Freud l’angoscia acquisisce i tratti che più le riconosciamo oggigiorno, definendola come uno stato di malessere fisico innescato da un conflitto inconscio tra una pulsione o un desiderio profondo e la coscienza guidata dal Super-Io (cioè il nostro “giudice” interiorizzato) che trova la pulsione stessa non idonea ad essere accettata ed eventualmente esternata.
Su un binario simile, anche se lontano dai criteri archeologici della psicoanalisi, s’indirizza l’esistenzialismo di Sartre che vede nell’angoscia la mancata fioritura della propria esistenza a favore di una modalità di vita asservita a valori borghesi e massificati, dominata dalla paura della morte. In effetti parrebbe che l’angoscia legata alla tanatofobia, Emoticon smileeccessiva paura della morte) sia un male connesso più frequentemente all’epoca moderna, diciamo dall’età della rivoluzione industriale in poi.
Anche se è lecito immaginarsi come gran parte (forse tutte?) le religioni umane dell’antichità abbiano avuto il tema della fine della vita e di un’eventuale sopravvivenza spirituale alla morte come perno centrale sui cui far ruotare il proprio credo.
Forse, in un epoca molto materialista come la nostra, l’attaccamento alle cose profane s’è maggiormente accentuato, rispetto ad esempio, ad un periodo come quello dell’antica Grecia in cui la vita media non superava i 40-45 anni di età ed in cui morire giovani e da eroi era già considerato di per sé un buon motivo per vivere.
Riccardo Talamazzi