La Polizia di Napoli sta eseguendo 12 ordinanze di custodia cautelare in Carcere nei confronti di persone ritenute affiliate al clan camorristico “De Micco”, operante prevalentemente nella zona di Ponticelli e responsabili, a vario titolo, di estorsione aggravata dal metodo mafioso, porto e detenzione illegale di armi, incendio doloso. A supporto dell’operazione, talune intercettazioni che hanno consentito agli inquirenti di risalire all’identità degli uomini del clan addetti al controllo armato del territorio e all’imposizione del pizzo ad operatori economici della zona. Ancora una volta, i tatuaggi hanno funto da elemento chiave per giungere al riconoscimento degli affiliati: tutti presentavano una scritta tatuata sul braccio.
Non a caso, nell’ambito di una precedente indagine, l’associazione camorristica capeggiata dai De Micco, fu ribattezzata “il clan dei tatuaggi”, per effetto di quel “Bodo” – soprannome di Marco De Micco, leader dell’omonimo clan – che gli affiliati sono soliti tatuarsi, quale segno di fedeltà, rispetto e ammirazione.
Una costante che si ripete e che palesa “la nuova pelle” che la camorra ha saputo indossare per imporre le sue regole, avvalendosi di un messaggio in codice all’avanguardia e parimenti efficace per “marchiare a fuoco” la vita di chi giura fedeltà eterna.
In principio, gli affiliati indicavano il loro rango e la cosca di appartenenza attraverso un anello. Difatti, alcuni boss del clan Mazzarella, negli anni Ottanta, sfoggiavano un anello a forma di testa di leone.
Oggi, oltre ai tatuaggi, infatti, i segnali identificativi che i clan utilizzano sono tra i più svariati. Anche in carcere.
Il collaboratore di giustizia Nicola Cangiano, ex affiliato al clan dei Casalesi, ha raccontato ai magistrati dell’Antimafia come, anche dietro le sbarre, il dress-code imposto dal proprio clan sia tuttora rigido.
Gli uomini del gruppo Zagaria vestono tutti scarpe Samsonite, vestiti di marca e finanche calzini di cachemire.
Gli uomini del clan Schiavone, invece, esibiscono barba curata e capelli senza gelatina, come imposto dal figlio di Francesco Schiavone detto “Sandokan”, mentre le scarpe griffate «Paciotti» erano una prerogativa di Cesare Pagano, boss di Scampia amante anche delle t-shirt con su impressi i volti dei divi di Hollywood.
Sulle t-shirt, in particolare, negli ultimi tempi, gli inquirenti hanno imparato a focalizzare la loro attenzione per poter giungere ad accertare se talune immagini esibite dagli affiliati e raffiguranti proprio i divi dall’accezione di senso “ambigua”, – quali l’Al Pacino di Scarface – possano essere indossate per ragioni ben precise, andando, quindi, a ricoprire un valore diverso ed assai più “compromettente” rispetto a quello di statica competenza di una semplice maglietta.
L’utilizzo dei tatuaggi, invece, è una materia ben più articolata e complessa, che annovera finanche radici storiche.
Agli albori dell’Ottocento, infatti, già i membri della «Bella società riformata» amavano ricoprire la propria pelle con simboli per testimoniare la lunga permanenza nei bagni penali. Il merito di aver rinvigorito questo “antico rituale”, nell’era contemporanea, spetta agli scissionisti: i narcotrafficanti di Scampia e Secondigliano, si riconoscevano tra di loro perché al polso esibivano Rolex da diversi migliaia di euro. Come «surrogato» alcuni affiliati preferivano tatuarsi sul polso la famosa corona, simbolo della casa svizzera. Inoltre, nel periodo della cruenta faida di Scampia, andava di moda tatuarsi sull’avambraccio la frase «Don’t touch my family». Una sorta di appello in un momento dove non si esitava ad ammazzare i familiari per cercare di stanare il nemico.
Gli affiliati delle cosche di Scampia si fanno dipingere sulla pelle, come segno di riconoscimento, uno scorpione, il segno zodiacale del boss Raffaele Amato, il capo dei capi della camorra di Secondigliano, lo stesso simbolo che viene impresso sui panetti di hashish che il clan Amato-Pagano importa dal Marocco e dalla Spagna. Quelli che se lo fanno tatuare sul corpo, vogliono dire che la camorra se la sentono sulla pelle.
Un altro tatuaggio molto in voga tra gli uomini del clan è la testa del mastino napoletano che, come ha spiegato il pentito Maurizio Prestieri, ex braccio destro del superboss Paolo Di Lauro, segno distintivo degli affiliati del clan Licciardi della Masseria Cardone.
Gli scissionisti vogliono tutti il kalashnikov tatuato, mente gli uomini Di Lauro, invece, la “P38”. Cristian Marfella, figlio dello storico capoclan del quartiere di Pianura, Giuseppe, in bella mostra, alla base della gola si è fatto tatuare la scritta Camorra.
La moda più sfrontata, in tal senso, è proprio quella esibita dagli uomini del clan De Micco: una banda di “bad boys”, dedita allo spaccio di stupefacenti, giovanissimi dal grilletto facile, la cui età media oscilla intorno ai 20 anni, più simili, nello stile e nelle movenze, ad una gang sudamericana piuttosto che a un clan camorristico.
Il clan «dei tatuati»: questo, come detto, il soprannome che deriva dalla moda di farsi tatuare il nomignolo del boss del clan: «Bodo». Un orpello che adorna e troneggia su avambracci, schiene, fianchi e, in taluni casi, finanche contornato da due fumanti pistole, per conferire ulteriore eloquenza al tangibile ”atto di devota e servile fedeltà” . Lettere gotiche, caratteri stilizzati e c’è pure chi ha deciso di rendere il concetto più chiaro aggiungendo frasi come «Rispetto, fedeltà, onore».
Questo è “il nuovo linguaggio in codice della camorra”.