La prima volta che ho sentito parlare di Elena Ferrante, è stato ad un consiglio scolastico di mio figlio. Parlando con la Prof. di italiano dell’importanza della lettura e della mia passione per i libri, mi consigliò di leggere la quadrilogia dell’Amica geniale, scritta per l’appunto dalla Ferrante.
La passione con la quale descrisse la storia, mi coinvolse a tal punto che, uscita da scuola, mi diressi subito in libreria. La “faccenda” mi aveva fortemente intrigata, si trattava di un racconto in 4 libri, ambientato nel quartiere in cui sono nata e cresciuta. Un quartiere di periferia tutto sommato simile ad altri, per quanto fosse uno dei più vecchi di Napoli, non rientrava in quelli che hanno accolto avvenimenti storici di rilievo, così da consentirgli d’essere tramandato ai posteri.
Cosa poteva mai poteva aver scatenato l’ispirazione di quella donna per indurre ad ambientare lì, proprio lì, addirittura quattro libri?
Conoscendo bene “il rione“, non trovavo una risposta adeguata e mentre cercavo di raggiungere la più vicina libreria, situata alla stazione Centrale, facendo “zapping” fra le auto, proprio come quando si usa il telecomando saltando da un canale all’altro, in preda all’isteria provocata dal traffico, dalle bancarelle del mercatino del rione Vasto, e dai vari semafori con relativi pulitori di vetri ad ogni angolo, ancora mi chiedevo cosa di questa nevrotica realtà, poteva averla stimolata.
Finito di leggere in meno di 24h il primo libro, capii che la musa ispiratrice della Ferrante era la gente.
Si, la gente, la mia gente, la stessa gente che dal 1950, – epoca in cui inizia il racconto – ad oggi, cammina per i vicoli di questo rione, ognuno con la sua storia, la sua vita travagliata, le sue emozioni, ognuno con qualcosa da dire. L’intreccio delle vite dei personaggi è articolato magistralmente e anche se le protagoniste sono solo due, ciascuna figura narrata diventa “protagonista di sé stesso” e grazie alla sua personalità conquista un ruolo di spessore, senza il quale, l’intreccio stesso non avrebbe modo di esistere.
A quel punto, la curiosità prese il sopravvento. Ma chi era questa Elena Ferrante, per conoscere così a fondo le dinamiche e le storie di un quartiere per certi versi anonimo? Il romanzo è autobiografico? E’ nata in questo quartiere? Ha vissuto nello stesso parco dove abito io?
Tutte domande alle quali ero convinta di trovare risposte, leggendo la sua biografia.
Immaginate la mia meraviglia nello scoprire che Elena Ferrante non esiste, nel senso di persona fisica dichiarata all’anagrafe con questo nome, il suo è solo uno pseudonimo scelto per restare nell’anonimato, di lei nulla si sa, tranne che è nata a Napoli e che potrebbe vivere in Grecia da quando si è trasferita ancora giovane.
Superata la prima fase di sbigottimento, la seconda è stata, ancora una volta, curiosità allo stato puro: perché la scelta dell’anonimato? Perchè non potevo conoscere il volto di colei che era stata capace di acuire tutti i miei sensi leggendo una storia dove riuscivo ad avvertire i profumi, sentire i suoni e toccare persino gli oggetti da lei descritti?
Le risposte non sono tardate ad arrivare e sono giunte proprio da lei, in quelle rare interviste rilasciate a mezzo posta elettronica. Alla domanda: “Non si è mai pentita di aver scelto l’anonimato? In fondo le recensioni si soffermano più sul mistero-Ferrante che sulle qualità dei suoi libri. Insomma, con risultati opposti rispetto a quelli che lei auspica, cioè enfatizzando la sua ipotetica personalità?”
Elena Ferrante risponde: “No, nessun pentimento. A mio modo di vedere, ricavare la personalità di chi scrive dalle storie che propone, dai personaggi che mette in scena, dai paesaggi, dagli oggetti, da interviste come questa, sempre e soltanto insomma dalla tonalità della sua scrittura, è nient’altro che un buon modo di leggere. Ciò che lei chiama enfatizzare, se è fondato sulle opere, sulla energia delle parole, è un onesto enfatizzare. Ben diversa è l’enfatizzazione mediatica, il predominio dell’icona dell’autore sulla sua opera. In quel caso il libro funziona come la canottiera sudata di una popstar, indumento che senza l’aura del divo risulta del tutto insignificante. È quest’ultima enfatizzazione che non mi piace”.
Quest’anno Roberto Saviano ha voluto proporre uno dei suoi libri al Premio Strega e nel chiederle se era d’accordo, ha ricevuto questa risposta:
“I miei libri, quando non sono rimasti nello spazio privatissimo del cassetto, possono andare dovunque li vogliano i lettori, l’essenziale è che io non debba andare con loro. Non li porto al guinzaglio, e al guinzaglio non mi lascio portare. Ci siamo separati definitivamente con la pubblicazione. E pubblicandoli ho consentito ad esporli al mondo nel bene e nel male.
Il principio a cui mi affido da ventitré anni è che, tra avventure e disavventure, cortesie e villanie, essi devono cercarsi da soli una loro strada. La troveranno? Bene. Non la troveranno? Pazienza. Vadano intanto a tutti i premi d’Italia, non ho preclusioni e nemmeno ansie, sono candidati loro, io sicuramente no. Questo per dire che stimo te e i tuoi libri, sono contenta che tu abbia letto uno dei miei e che voglia schierarlo in una minuscola battaglia culturale, ma è inutile chiedermi il permesso. Nessun lettore scrive per avere il mio consenso, se deve usare L’amica geniale per tenere in piedi un tavolo cui s’è spezzata una gamba. Il puro e semplice fatto che il libro sia finito in casa sua, a portata di mano, e che ora gli appartenga lo autorizza a farne ciò che gli pare.”
La mia curiosità era stata pienamente soddisfatta e a farlo era stata proprio lei: “Insomma, si può sapere lei chi è?”
“Elena Ferrante. Ho pubblicato sei libri in venti anni. Non è sufficiente?”