L’alba che ha conferito luce e forma ad uno dei giorni più drammatici e doloranti della storia del nostro Paese, irradia un clima teso e pesante.
In Italia, per l’Italia, è il giorno dopo la tragica uccisione di David Raggi, il 27enne ucciso a Terni dalla follia di un extracomunitario che con quell’atto d’inaudita ed efferata barbarie ha sancito il “punto di non ritorno” in una nazione in cui gli equilibri che intercorrono tra razzismo ed integrazione, di per sé, palesavano segni di precario barcollamento, per effetto degli ultimi e già concitati episodi.
In un clima di malcontento ed esasperazione, abbondantemente fomentato da quanto accaduto nel vicentino, allorquando il benzinaio Graziano Stacchio ha esploso alcuni colpi di fucile contro i banditi che rapinavano una gioielleria, ferendo mortalmente il 41enne nomade Albano Cassol, nato a Vicenza e residente nel campo di Fontanelle, nel Trevigiano, la morte di David è giustamente diventato un caso politico, oltre che una tragedia che semina sconcerto ed allarmismo tra la popolazione.
Non ci stanno gli italiani, stanchi di vivere nel terrore e allo sbaraglio, in balia di imprevedibili variabili altamente criminose che si traducono in un autentico boom di furti negli appartamenti, rapine, stupri, capaci di mietere un continuo stato di allerta e privazione che viola le più basilari e dignitose norme alle quali una società civile dovrebbe rifarsi, ancorarsi ed ispirarsi.
È “il giorno dopo” anche a Napoli e, nonostante sia uno dei rari sabato pomeriggio all’insegna di un clima potenzialmente mite fin qui sorti dall’inizio del 2015, alle pendici del Vesuvio si respira un clima teso.
In Circumvesuviana si viaggia “divisi in fazioni”: “noi” in una carrozza, “loro” in un’altra. Volano sguardi densi di disprezzo ed intolleranza. Figli delle più sature forme di esasperazione, disdegno, paura, stanchezza. I nervi sono saltati e adesso è difficile carpire buon senso, la voglia di “riappropriarci di ciò che è nostro” vive negli sguardi che contaminano l’aria, rendendola davvero satura di astio, vivo, forte, intenso, convinto. Quello che sbarra nettamente la strada alle buona speranze e che ostruisce qualsivoglia possibilità di dialogo, apertura, confronto.
“Il giorno dopo la morte di David” è tutto nero.
E non solo per effetto del luttuoso feretro di tristezza che avvolge la morte di un ragazzo qualunque.
È successo a Terni, ma poteva accadere ovunque. E non c’è spazio per altri pensieri. Per altri sentimenti. Non oggi.
Quando il treno giunge alla stazione di Granturco accade l’impensabile.
Per chi non lo sapesse, quella stazione è il nodo di scambio cruciale per i rom adagiati nell’enorme campo sorto in quello che doveva essere, – ma che in realtà non è – il fiore all’occhiello dell’area industriale di Napoli.
Lì, a Granturco, si passano il testimone, innumerevoli donne gravide, con squadre di ragazzini al seguito, uomini trainanti carretti improvvisati, pregni di cartoni e rifiuti. C’è chi sale e chi scende. Diretti al centro della city o più propensi ad addentrarsi nei meandri dell’entroterra, a seconda dei casi e delle necessità.
Ma, ieri, “il giorno dopo la morte di David”, quando il treno costeggia la banchina sulla quale figurano una ventina di rom in attesa di salire a bordo, la cittadinanza è insorta.
È stata la prima volta che ho assistito ad una simile rivolta da parte dei napoletani.
“Non aprite le porte!” – urlava qualcuno – “Che li facciamo salire a fare? Il treno è già pieno? Dove devono andare? A rubare nelle nostre case?” – sbraitava qualcun altro – “Perché non venite a controllare se hanno il biglietto?” aggiungeva un altro passeggero, “sfidando” gli addetti ai lavori che hanno ben pensato di rimanere relegati nelle stanze dei bottoni per non curarsi della spinosa vicenda.
I rom entrano nel treno, accompagnati da quel caotico e tutt’altro che rassicurante trambusto di dissensi, rimangono a ridosso delle porte, si guardano bene dal pensare di rivendicare il diritto di conquistare un posto a sedere.
Il treno riparte e costeggia il loro “impero”: una baraccopoli che si estende imponente, invasa da una caterva di lamiere, cartoni e mezzi di fortuna utili ad ingegnare abitazioni. Tante abitazioni. Destinate ad estendersi a macchia d’olio. Questo è il sentore che fortemente trapela da quello scenario che racconta un’umanità che vive in condizioni così lontane dal nostro concetto di “vita” e così poco affine ad abbracciare tutto quello che nel nostro credo è riconducibile al termine “umano”.
Quel mix di emozioni e stati d’animo, facilmente e prevedibilmente, sfocia in un dibattito degno della prima serata di un salotto televisivo. C’è troppa voglia di parlare, di sfogarsi, di tirare fuori quello che ribolle nelle viscere, senza filtri né censure né remore ed indugi.
“Prenderei una tanica di benzina e darei fuoco a tutto, a loro, alle baracche. Così il problema sarebbe risolto definitivamente.”
“Questa è gente che ruba: rubano la nostra corrente elettrica, la nostra acqua, le nostre auto, i nostri soldi. Perfino la nostra spazzatura per “completare l’opera” di chi ci ha già abbondantemente inguaiato, applicando roghi tossici.”
“Ora ci stanno rubando anche la serenità. Non si vive più bene: c’è paura. C’è ansia quando i figli escono la sera, ma anche di giorno…. Io l’ho detto a mio figlio, è meglio se va via da qui e si costruisce una vita altrove. Qui non c’è futuro. I nostri politici aiuteranno questi signori a diventare i padroni del Nostro Paese, tra poco saremo costretti a cedergli anche le nostre case, se andiamo avanti di questo passo.”
“No! Non è giusto! Perché i nostri figli devono andare via!? Non è giusto! È dovere di chi ci governa garantire un futuro ai nostri ragazzi. Non dobbiamo permettergli di andar via e rinunciare a vivere accanto a noi, alle persone che amano e in quella che è la loro casa, il loro Paese”.
Si potrebbe andare avanti per ore, si andrà avanti per giorni, concorrendo a delineare traiettorie spinose e complesse che rischiano seriamente di sfociare in episodi cruenti.
Non credo che i discorsi e gli scenari delineati a Roma, a Milano, a Palermo e a Cagliari, “il giorno dopo la morte di David” siano poi tanto diversi da quelli sopra riportati.
Il rischio che in un clima del genere possano sopraggiungere altri morti da piangere è concreto ed è palpabile, non solo negli sguardi e nelle parole, ma soprattutto nel clima che si respira. Quella brezza di contratta e minacciosa attesa che stanzia nell’anticamera di “qualche avvenimento” che sta per palesarsi e che di per sé ingloba un sentore tutt’altro che rincuorante.
La morte in quanto tale non conferisce giustizia né vendica i torti, non allevia il dolore e non riscatta anime già volate in paradiso.
L’aria che incombe sull’Italia da quando David è morto deve rappresentare un vibrante sollecito ad adempiere per chi dispone del potere necessario per ripristinare ordine ed allentare acredine e dissapori, affinché si possa a respirare distensione.