“Finalmente” esclamano la maggior parte delle bocche e delle menti, sature, di studio o di lavoro, ma, comunque, a loro modo, parimenti desiderose di abbracciare ore e respiri meno condensati di routine, più conditi di rigenerante spensieratezza.
È sabato anche per me, anche per “quelli come me” che, di contro, hanno l’obbligo e il dovere di ricaricare al massimo le pile per appagare le esigenze e le velleità di quelli di cui sopra.
Difatti, il mio sabato, vissuto sì nel cuore della gettonatissima movida di Chiaia, ma da dietro al bancone del “Seventy” è profondamente diverso rispetto a quello sorseggiato dagli avventori.
Per me, il sabato è un rituale, consolidato, ma mai scontato, perché scandito dalla consapevolezza che l’imprevisto è sempre dietro l’angolo. Come di consueto, lo staff si raduna, nel segno dell’amichevole richiamo partorito dall’odore del primo caffè, mentre dispenso le direttive. Anche se, ormai, possiamo definirci un ingranaggio perfetto nell’ambito del quale ciascuno di noi ha ben chiaro cosa fare. Prepariamo la postazione dei barman e l’occorrente per l’aperitivo. Si creano le premesse per lavorare nel migliore dei modi e confezionare un’apprezzabile serata.
Il pre-serata, la fase di preparazione che antecede il sopraggiungere della clientela è molto divertente, trascorrendo la maggior parte della giornata e delle giornate insieme, siamo amici, non colleghi.
La serata lavorativa, invece, si avvia mediante il solito iter: “Buona sera, come stai?”, “Cosa desidera?”, “Prepara questo, prepara quello”. Ci si parla con gli occhi, non con le parole, comunichiamo continuamente attraverso gli sguardi.
L’aperitivo rappresenta il momento più bello in cui lavorare, consente di avere un contatto più diretto con la clientela. L’aperitivo ha un odore diverso.
Con l’avvento della seconda serata cambia completamente la scena. Il pubblico, i ritmi lavorativi, gli odori, gli sguardi, il modo di approcciare l’alcool. È l’istinto che mi dice di tenere gli occhi aperti, viene naturale vestire gli sguardi di maggiore attenzione.
Puntualmente accade: “Ho 18 anni, ma non ho i documenti per dimostrartelo”. “Ok, io non ho l’alcool per farti bere”. È la mia pronta e sistematica replica. Mi becco un bel “Vaffa..” di tutta risposta, ma giustifico anche quello, perché sono stato giovane anche io.
Gli aspiranti maggiorenni sono solo una delle tante sfumature che tinge la variegata anima del “popolo della notte”: quelle accalcate sagome che si sentono più libere di uscire allo scoperto, perché avvolti in un mantello cupo, più complice e discreto rispetto a quello che accompagna le ore diurne. La notte è meno nobile e per questo si presta meglio alle magagne.
“Il popolo della notte” ingloba “cattivi e buoni”, ovvero, varietà umane accentuate in un senso e nell’altro, solo perché è notte. In relazione ai primi, risulta terribilmente sbagliato pensare che, di notte, le persone si “trasformino”: quelli che combinano bravate sono gli stessi che anche di giorno adottano condotte non proprio edificanti. Invece, i secondi, si aggirano tra drink e schiamazzi per dimenticare i guai del giorno.
Quel giorno fatto di pensieri di cui la notte facilmente si sbarazza.
L’ansia che ti accompagna la mattina quando ti svegli, non è ancora lì a darti la buonanotte quando vai a dormire. Di notte, puoi anche smettere di pensare per cinque minuti.
“Il popolo della notte”, con i suoi limiti, contraddizioni ed eccessi, sostanzialmente, è tenero.
Una frase di Paul Valéry recita: “Quello che c’è di più profondo nell’essere umano è la pelle.” Ecco, questa è l’essenza che meglio incarna l’anima del “popolo della notte”. La serata volge al termine quando giunge “la parola magica”: “Ok ragazzi, può andare bene anche così”. Allora, chiudo la serranda e ricomincia il mio mondo, si smette di essere uno staff e si ritorna ad essere amici, il direttore va a dormire e si risveglia Paolo.