Raffaele Viviani nacque a Castellammare di Stabia, il 10 gennaio 1888, da una famiglia molto povera, la madre “un cuore d’oro di donna” (come scrive egli stesso ne “Da la vita alle scene”), al secolo Teresa Sansone era casalinga, e il padre (omonimo) Raffaele, cappellaio che più tardi divenne vestiarista teatrale. Va precisato che il vero cognome del commediografo era Viviano e, solo quando l’attore napoletano divenne noto, il suo cognome d’origine fu mutato in Viviani, considerato dal medesimo Raffaele, più artistico e teatrale.
Raffaele, o meglio Papiluccio, appellativo col quale veniva chiamato dai suoi cari, restò orfano di padre a soli 12 anni, la vita già dura, divenne spietata, da scugnizzo spensierato a uomo di casa il passo è breve. Quelli che seguirono furono anni difficili, abitava con la madre e la sorella, in un quartiere malfamato, Borgo Sant’Antonio Abbate, dove i tre vissero per lungo tempo nella più cupa disperazione e miseria; Raffaele da buon scugnizzo, passava le sue intere giornate per le strade e per i vicoli di una Napoli pericolosa e criminale. Ma sapendo di avere un talento naturale, decise di sfruttarlo appieno. Nonostante fosse una persona analfabeta, volle studiare da autodidatta per migliorarsi e seppe riscattarsi socialmente e culturalmente, dopo un lungo tirocinio da artista poliedrico quale era. In breve tempo fu ammirato e apprezzato in tutti i teatri d’Italia, d’Europa e oltre Oceano. Gli anni trascorsi per strada in cerca di una scrittura, lavorando a volte anche solo per cinquanta centesimi a sera, influenzarono il suo stile e fecero la sua fortuna.
Il suo debutto di attore-autore e regista, avvenne il 27 Dicembre del 1917, al Teatro Umberto di Napoli, quando inscenò il dramma ‘O vico, commedia in un atto in versi, prosa e musica. Il suo teatro era fatto di creature vive e non di figure romanzesche-letterarie; sulla sua scena ci sono ritratti umani tragico-comici della società napoletana. Il suo non era un popolo piccolo borghese di matrice scarpettiana, ma era un popolo di scugnizzi, di spazzini, di guappi, di prostitute, di ladri, di miseri vagabondi, di venditori ambulanti, di vicoli, di rioni e di quartieri napoletani degradanti, dove si vive un’esistenza faticosa e penosa, di indigenza e di emarginazione. “Non mi fisso sempre una trama, mi fisso l’ambiente; scelgo i personaggi più comuni a questo ambiente e li faccio vivere come in questo ambiente vivono, li faccio parlare come li ho sentiti parlare” ( R. Viviani, Dalla vita alle scene. Il romanzo della mia vita; Guida Editori, Napoli, 1977 ).
Sulle tavole del suo palcoscenico diede vita dunque ai sentimenti, alle ansie, alle passioni, alle gioie, ai problemi, alle lotte, alle ingiustizie e alle rivendicazioni di questa umile plebe napoletana. Il popolo vivianesco diventa quindi metafora dell’intero universo. Don Rafele analizza attentamente la realtà sociale in cui vive, per poi inscenare sul palcoscenico vari e diversi personaggi popolari. Le macchiette di Papiluccio presentano una vena crudelmente neorealistica e una comicità e un’ironia ricche di tragico sentimentalismo.
Il Varietà popolare vivianesco dovette però fare i conti con l’Italia fascista, le rappresentazioni del macchiettista napoletano facevano scandalo. L’Italia perbenista, la borghesia benpensante e la cultura e la censura fascista chiesero ed ottennero i tagli sui copioni vivianei. Il fascismo era pronto ad ostacolare la diffusione delle compagnie dialettali e quel teatro regionale-popolare, di cui Papiluccio era rappresentante. Raffaele Viviani non si perse d’animo, pur rimanendo fedele ai suoi personaggi e al suo modo di vedere la vita, passò alla prosa e il successo che ottenne, riconfermò la sua genialità. Da grande uomo di teatro, quale era, aveva fissato compiutamente non solo nel testo scritto, ma anche nelle didascalie e nella presentazione dei personaggi, la sua opera creativa. Egli odiava, infatti, ogni forma di faciloneria e di improvvisazione e, fin dall’inizio della sua attività nel teatro di prosa, impose a se stesso e agli attori della propria compagnia un rigore interpretativo e una fedeltà al testo scritto che erano assolutamente sconosciuti nel teatro napoletano di allora.
Era un regista esigentissimo, che non perdonava neanche il più piccolo sbaglio o una semplice dimenticanza. Gli attori erano tenuti a imparare le parti a memoria già durante le prove e neanche per la prima rappresentazione veniva consentito l’aiuto del suggeritore.
Il nostro commediografo fu quindi autore, attore, poeta, acrobata, musicista, melodista e cantante del suo teatro, oltre ad essere riconosciuto come il più celebre dei macchiettisti della drammaturgia napoletana.