Il 2014 è stato un anno nero per i femminicidi, con 179 donne uccise, in pratica una vittima ogni due giorni. Rispetto alle 157 del 2012, le donne ammazzate sono aumentate del 14%.
Aumentano quelli in ambito familiare, così come pure nei contesti di prossimità, rapporti di vicinato, amicizia o lavoro. Anche negli ultimi mesi la cronaca nera è sommersa da notizie di femminicidio. La violenza di genere attraversa le famiglie di ogni ceto sociale; non è quindi imputabile solo all’ignoranza o alla deprivazione socio-culturale.
Ottantuno donne, il 66,4% delle vittime dei femminicidi in ambito familiare, hanno trovato la morte per mano del coniuge, del partner o dell’ex partner; la maggior parte per mano del marito o convivente, cui seguono gli ex coniugi/ex partner, ed i partner non conviventi.
Oltre 330 donne sono state uccise, dal 2000 a oggi, per aver lasciato il proprio compagno. Quasi la metà nei primi 90 giorni dalla separazione. Il rapporto Eures, li ha definiti i ‘femminicidi del possesso’, e conseguono generalmente alla decisione della vittima di uscire da una relazione di coppia.
Molte donne, spinte dalla solidarietà femminile e da sgomento nei confronti del fenomeno in questione, si sono occupate della trattazione dell’argomento. A tal proposito emerge il lavoro letterario di Francesca Gallello, “Donna Rosa”, un libro che racchiude 77 testimonianze di donne che hanno subìto violenza, come racconta l’autrice.
“Tutto è nato da un profilo sui social network – spiega Francesca – dedicato alla lotta contro la violenza sulla donna, al libero sfogo di ognuna di esse. Una sorta di sportello, in cui le vittime possono svuotarsi dall’accaduto, elaborando così i traumi subìti, trovando una valvola di sfogo. Perché anche dopo avere ottenuto giustizia e aver visto il proprio carnefice finire in carcere, rimane nella donna una ferita profonda da curare a causa del dolore che sicuramente accompagnerà le vittime per tutta la vita. Dunque parlarne, sfogarsi, raccontarsi è un balsamo lenitivo per l’anima.”
“Ciò che accomuna tutte queste donne, pur avendo subìto differenti tipologie di violenza, è il senso di colpa, emerso dai vari racconti. Come se in qualche modo, per assurdo, fossero le donne stesse colpevoli di ciò che hanno vissuto. Alcune pensano di aver sbagliato comportamento, vestiario, atteggiamento. Anche se in realtà, sappiamo bene che nessun comportamento giustifica la violenza”. Continua Francesca.
E’ anche vero che la violenza sulle donne non è un fenomeno emergente. C’è sempre stato, solo che in passato non acquisiva la rilevanza che adesso ha grazie ai media, social network, ecc.
Ma c’è anche un’altra differenza da sottolineare tra passato e presente, ovvero i retaggi culturali che una volta vedevano l’uomo quasi ‘giustificato’, e non ‘punibile’. Dalle antiche leggi romane che consideravano il pater familias detentore del diritto di vita e di morte sui familiari. Queste riflessioni mi hanno fatto pensare al film di Pietro Germi, Divorzio all’italiana, girato a Ragusa: il femminicidio rappresentava appunto la soluzione al problema, come viene confermato inoltre da Francesca.
“ Un cambiamento, nel tempo esiste, ed è percepibile nella libertà di denunciare le violenze subìte. Una volta, le donne non potevano confidarsi neanche con il nucleo familiare, ovvero con le persone che più da vicino dovrebbero proteggerci, poiché era quasi intrinseco nel matrimonio subire quasi qualsiasi forma di prevaricazione da parte del marito. Già negli anni 60 accadevano casi di violenza carnale, violenza che decadeva semplicemente mediante il così detto ‘matrimonio riparatore’”.
Fortunatamente qualcosa è cambiato in questo senso, ma nella maggior parte dei casi è riscontrabile la difficoltà delle donne in questione, nel chiedere aiuto sin dall’inizio. “Accade perché la maggior parte delle violenze, provengono da parte di persone ‘care’, persone estremamente vicine e presenti nella vita delle vittime: il marito, il fidanzato, il padre, il fratello. Una presenza che intimorisce sia dal punto di vista delle probabili ripercussioni, sia per il legame affettivo, e anche per vergogna. Per questo la maggior parte delle donne, cerca sempre di giustificare. Giustificare uno schiaffo, giustificare una gelosia eccessivamente morbosa, giustificare anche la violenza fisica quando scatta una lite. Ovviamente parliamo di donne destabilizzate, che non vedono la realtà con lucidità” spiega Francesca.
Queste donne dovrebbero avere più sostegno anche da parte delle istituzioni, talvolta la legge si limita ad allontanare il carnefice mediante delle mere restrizioni territoriali, in alcuni casi più “fortunati” scatta la reclusione per qualche anno, dopo di che ritorna il terrore per la vittima.
“Più sostegno dalle Istituzioni, dalla legge, e soprattutto non abbandonare le donne anche nella fase finale, ovvero quando l’incubo sembra terminato. Una volta allontanato fisicamente il carnefice, la vittima non dimentica ciò che ha subito. Non potrà condurre normalmente la sua vita come se nulla fosse successo, vivendo la triste vicenda alla stregua di un brutto sogno. Ci vuole sostegno per queste donne anche dopo. Mediante uno sfogo, non facendole sentire abbandonate, e soprattutto enfatizzando il loro coraggio ogni giorno se necessario. Perché parlarne, come queste donne hanno fatto con me, è un atto di coraggio che funge da esempio per tutte le altre donne che ancora si nascondono dietro la vergogna e il timore di esporsi.” – Conclude Francesca – “Anche le scuole dovrebbero fare la loro parte, affiancando all’educazione sessuale un educazione sentimentale, perché forse il problema sta a monte, molti confondono l’amore con il possesso.”
In certi casi qualcosa esplode nella coppia, quello che inizialmente sembrava l’amore, viene capovolto, profanato fino all’estremo. Rivelando che quella relazione non era fondata sulla meraviglia e sulla cura l’uno dell’altra; ma sulla costante, radicale pretesa di assimilazione e di possesso da parte dell’uomo sulla donna.
Il potere maschile, per molti versi, resta intrecciato all’ordine sociale e continua a lavorare nell’ombra della violenza domestica: squilibra i rapporti e i ruoli, presidia la cultura e il linguaggio, cerca di riaffermarsi nelle scuole e nelle famiglie.
La «violenza domestica» — quella subita dagli uomini di casa, anche padri o fratelli — è la prima causa di morte nel mondo per le donne tra i 16 e i 44 anni: più degli incidenti stradali, più delle malattie. Per questo dobbiamo subito liberarci dell’idea del mostro, dobbiamo sottrarci a quella reazione immediata che ci porta a dire: io non sono così, noi siamo normali.
La violenza sulle donne, che in alcuni casi si spinge fino all’omicidio definito per la prima volta «femminicidio» da una sentenza del 2009, non è una collezione di fatti privati: è una tragedia che parla a tutti. Soprattutto, che riguarda tutti gli uomini.