Raif Badawi è un blogger di 30 anni che lo scorso anno in Arabia Saudita è stato condannato a 10 anni di carcere e mille frustate in pubblico.
Il suo crimine? Scrivere sul blog “Liberali dell’Arabia Saudita” -fondato da lui stesso- nel quale trattava di politica, società e religione. Secondo il tribunale, i post di Badawi criticavano alcune figure religiose: l’uomo è stato condannato per vilipendio dell’Islam.
Lo scorso 9 gennaio, il giovane è stato sottoposto alla prima serie di frustate di fronte alla moschea di Al-Jafali, riportando delle ferite così profonde che i medici hanno stabilito che non è in grado di sopportare una nuova sessione di torture.
“Hanno frustato mio marito pubblicamente, mani e piedi legati, il volto contorto dal dolore. Il solo ricordo mi è insopportabile”-racconta Ensaf Haidar, moglie del blogger.
Adesso Raif rischia addirittura la pena di morte: è stato processato nuovamente con l’accusa di apostasia, ovvero per aver abbandonato volontariamente la propria religione.
Secondo la Commissione delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, l’apostasia è un diritto imprescindibile: “ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione”
Nonostante questo, in Arabia Saudita è punibile con la morte: se Raif sarà giudicato colpevole, il suo destino sarà segnato.
I problemi con la giustizia, per Raif Badawi, erano iniziati nel 2008: il blogger e la sua famiglia erano stati costretti a lasciare il Paese alla volta dell’Egitto, poi si erano recati in Libano. Dal 17 giugno del 2012 lo scrittore è detenuto nel carcere di Briman a Gedda mentre la moglie e le tre figlie si trovano in Canada, dove hanno ricevuto asilo politico.
Nel 2013, un giudice aveva respinto l’accusa di apostasia dopo che il blogger aveva assicurato ai magistrati di essere musulmano: tra le prove contro di lui, l’aver cliccato “mi piace” alla pagina Facebook per cristiani arabi.
Raif è stato accusato, inoltre, per aver criticato la Commissione per la Promozione della Virtù e la Prevenzione dal Vizio (meglio nota come Polizia Religiosa) e i funzionari che avevano sostenuto il divieto di includere le donne nel Consiglio della Shuna (organismo parlamentare consultivo)
Nel luglio del 2014 anche l’avvocato del blogger, Waleed Abu al-Khair, è finito in manette: dovrà scontare 15 anni di carcere con l’accusa di “minare il regime ed i suoi funzionari, aizzare l’opinione pubblica contro l’autorità e oltraggiare la magistratura”
La vicenda ha mobilitato l’intera comunità internazionale, dalle istituzioni all’opinione pubblica passando per le organizzazioni.
Il Parlamento Europeo ha sottolineato che: “le sentenze giudiziarie che impongono punizioni corporali, inclusa la fustigazione, sono rigorosamente vietate dal diritto internazionale in materia di diritti umani, compresa la convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani e degradanti, che l’Arabia Saudita ha ratificato“ ed approvato una risoluzione nella quale si chiede il rilascio senza condizioni del blogger definendo il caso come “simbolico dell’attacco alla libertà di espressione”
Amnesty International ha organizzato un sit-in degli attivista di fronte all’Ambasciata dell’Arabia Saudita a Roma, che si è tenuto ieri: la campagna dell’associazione chiede non solo la scarcerazione di Raif ma anche degli altri 11 “prigionieri di coscienza”, finiti dietro le sbarre per aver esercitato il proprio diritto alla libertà di espressione.
Inoltre, la voce di ciascuno di noi può unirsi a quella di Ensaf Haidar, moglie del blogger, che ha lanciato un appello al Ministro dell’Economia tedesco: nei prossimi giorni Sigmar Gabriel si recherà in Arabia dove, secondo la donna, potrà usare la propria influenza per convincere i leader sauditi a riconsiderare la pena.
“Io e Raif ci siamo conosciuti 15 anni fa. Due anni dopo ci siamo sposati. Mio marito è un uomo buono e un padre premuroso, le nostre tre bambine ed io temiamo per la sua vita. Non sopportiamo più di stare lontane da lui ed essere così impotenti. Vogliamo che Raif torni da noi e vogliamo, come tanti, che ci siano delle riforme nel nostro Paese” –dichiara Ensaf
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