In seguito alla crisi economica e al crollo politico che ha colpito i Paesi del Nord Africa e la Libia, un esodo migratorio senza precedenti ha interessato le coste del sud Italia. Ad oggi, a distanza di solo qualche settimana dall’emergenza Isis, i flussi hanno visto riversarsi sulle nostre regioni del sud oltre 20.000 migranti.
Avamposto dell’accoglienza è Lampedusa, dove sbarcano quotidianamente dai 200 agli 800 migranti, e dove emerge l’impossibilità di sostenere un adeguata assistenza umanitaria di un così alto numero di persone, e la mancanza di adeguate strutture che permettano l’accoglienza, impone che i migranti giunti sulle coste dell’isola e delle regioni del sud Italia vengano trasferite sul territorio nazionale in strutture di emergenza.
Tra le strutture volte ad ospitare gli immigrati, situata nel centro storico di Ragusa, (a pochi chilometri da Pozzallo dove la presenza dei flussi migratori rappresenta una costante), c’è uno dei centri di accoglienza S.P.R.A.R. Sistema di Protezione dei Richiedenti Asilo e Rifugiati. Nello specifico si tratta di un centro volto all’accoglienza di donne e bambini.
Il progetto S.P.R.A.R. offre accoglienza e protezione ai richiedenti asilo nell’attesa della definizione della procedura di riconoscimento dello status di rifugiato;
o meglio dovrebbe, stando al racconto di una delle operatrici sociali che attualmente lavorano in questo centro.
La prima criticità riscontrata dall’operatrice, ma facilmente percepibile da qualsiasi visitatore, è quella più evidente, ovvero le carenze inerenti alla struttura: fatiscente, dal punto di vista estetico ma non solo.
“Non è un luogo idoneo ad ospitare donne e bambini, i servizi igienici sono insufficienti rispetto al numero degli abitanti del centro, le stanze con il bagno in camera in tutta la struttura sono solamente due, e questo non è un dettaglio banale, bensì indispensabile, in quanto il centro prevede anche l’accoglienza di donne vulnerabili, ovvero donne con particolari patologie a rischio contagio, ulteriore motivo per cui sarebbero auspicabili i servizi igienici in ogni stanza”.
Sempre all’interno dell’accoglienza rientrano attività di formazione linguistica e di istruzione per adulti, iscrizione a scuola dei minori in età dell’obbligo scolastico, attività di informazione legale sulle procedure di asilo e sui diritti e doveri dei beneficiari in relazione al loro status. Il progetto è specializzato anche nell’accoglienza e sostegno di disabili e di soggetti rientranti nella categoria vulnerabili.
Anche questa in parte pura teoria, come sostiene l’operatrice del centro: “le attività da svolgere, in primis quella dell’alfabetizzazione, molto importante in quanto chiave principale per una possibile integrazione nel tessuto sociale ragusano, non viene svolta come dovrebbe, perché non ci sono fondi sufficienti per i progetti. L’alfabetizzazione viene così affidata alle tirocinanti universitarie di turno, che pur rispettando il loro tentato lavoro, non mostrano la continuità adeguata anche per le pochissime ore che hanno a disposizione”; continua l’operatrice “anche quando la nostra equipe, propone un attività, un’altra tipologia di progetto, la risposta è sempre negativa per insufficienza di fondi economici”.
La figura dell’operatore, in forza di una specifica formazione, basandosi sulla capacità di relazionarsi correttamente, attua un intervento diretto con l’utente, al fine di recuperare quelle risorse necessarie all’acquisto di una propria autonomia in supporto della vita quotidiana.
“Questo è quello che ci viene detto durante i corsi di formazione, ma in realtà mancano i mezzi per aiutare queste persone al fine di indirizzarle verso una totale integrazione con gli abitanti della città; non a caso sono pochissime le donne che escono dal centro per cercare un lavoro, preferiscono passare intere giornate dentro le stanze o in giro per la struttura, fuori in giardino insieme alle compagne. Una vera e propria microsocietà che si rafforza facendo vita di gruppo, un gruppo coeso all’interno delle mura del centro”.
Infatti, una delle cose che mi ha maggiormente colpito di queste donne, non è stata la diffidenza in quanto tale nel non voler parlare o raccontarsi, bensì una sorta di non curanza verso chi non conoscono, un mutismo che probabilmente nasconde altri sentimenti: dopo i viaggi della speranza, le traversate, le ore nei centri di prima accoglienza, le ore trascorse in questura per il riconoscimento, gli svariati tentativi di ricongiungimenti familiari durati anni e ancora attesi.
Negli occhi di queste donne si legge speranza, ogni donna e bambino incontrato all’interno del centro porta con se la valigia con cui è partito, valigie piene di sangue, di guerre, di martirio. Probabilmente il contenuto di queste valigie lo porteranno con se per sempre, ma facendo spazio ogni giorno di più a qualcosa di più grande: la speranza, la speranza di una vita migliore.