Proprio ieri sera è andata in onda su Sky Atlantic l’ultima puntata di Fargo, serie che si ispira all’omonimo film dei fratelli Coen del 1996, produttori esecutivi della serie. Fra un Emmy come miglior miniserie del 2014 e un Golden Globe vinto da Billy Bob Thornton come miglior attore protagonista in una miniserie o film per la televisione, Fargo si conferma una delle serie più interessanti dell’anno appena trascorso, assieme a True Detective e a House of Cards.
Fargo racconta le vicende di Lester Nygaard, un mediocre assicuratore la cui vita viene sconvolta dall’incontro con il freddo assassino Lorne Malvo, seguite dai tentativi dell’agente Molly Solverson di incriminare il colpevole dei delitti che imperversano nella cittadina di Bemidji.
La maggior parte delle serie tv presenta uomini (bianchi, eterosessuali) al centro della scena. Qualcuno potrà citare il caso di Orange Is The New Black. Molto bene, ma non si può certo negare che le numerose scene di amore saffico siano rivolte al compiacimento di un pubblico tutto maschile. Venendo al caso di Fargo, comunque, il quadrilatero dei protagonisti include tre uomini e una donna (Lester, Malvo, Gus e Molly), la cui figura è però molto interessante e degna di una piccola riflessione.
Molly è il vice della polizia locale di Bemidji. È coraggiosa, professionale e mette il lavoro al primo posto. Qual è, tuttavia, il ruolo che una donna poliziotto riesce a ritagliarsi? Inizialmente la vediamo agire all’ombra del suo capo, Vern, il quale perlomeno ne riconosce le potenzialità. Ma le cose peggiorano decisamente quando Vern muore e a prendere il posto di capo è, per anzianità, Bill Oswalt (un altro uomo, già). Peccato che non abbia metà delle capacità di Molly, e che sia pavido, sentimentale e poco acuto. Molly dovrà quindi lottare con le unghie e coi denti per mandare avanti le indagini su quello che sa essere fin dall’inizio il mandante ed esecutore dei delitti che sconvolgono Bemidji.
Sarà ancora una volta un uomo a intralciarla, seppur involontariamente, Gus Grimly. Gus, diventato poliziotto di Duluth non per passione ma per ripiego, durante un’operazione a Duluth spara inavvertitamente a Molly, mandandola all’ospedale con la milza spappolata. Si potrebbe anche considerare, in base a una rudimentale interpretazione freudiana, la pistola come un simbolo fallico, che si ritorce contro Molly per aver voluto appropriarsi di una mascolinità che non le è concessa. Quando la donna si riprende, l’indagine le è stata tolta, e dopo poco il caso viene chiuso. Molly sposa nel frattempo Gus che, ancora una volta, contribuisce a creare delle condizioni sfavorevoli per il lavoro di lei: la mette incinta (un’azione fallica ben più concreta, stavolta).
Gravata da questa responsabilità fisiologica, durante la resa dei conti con l’assassino, Molly si troverà bloccata alla stazione di polizia mentre gli altri poliziotti passano all’azione raccogliendo i frutti del suo lavoro. Interessante la contrapposizione anche cromatica e fisica con la sua collega bionda, un po’ svenevole, vigliacca, e più piacente di lei, concentrata come lo sceriffo Bill sulla gestione di questioni minori, come una tempesta che sta per abbattersi su Bemidji, ignorando problemi ben più importanti.
Quando finalmente Molly decide di passare all’azione, il marito Gus le ha già sottratto la scena, uccidendo il killer Lorne Malvo. Gus riceverà un’onorificenza, mentre Molly diventerà sì sceriffo, ma non le verrà mai riconosciuto ufficialmente il merito di aver risolto il caso. Emblematica la scena finale: Gus riconosce che il premio sarebbe spettato a Molly e lei, con una nota di amarezza, afferma: “Mi basta essere sceriffo”. Una soddisfazione parziale. Accontentarsi. Non è questo che fanno le donne quando arrivano i risultati di un lavoro in cui hanno messo il doppio dell’impegno di un uomo?
Isabella Galazzo